David Folkerts-Landau, chief economist di Deutsche Bank, ha appena dato alle stampe un report in cui sostiene che per l’Eurozona è giunto il momento di scegliere fra due sistemi: quello americano, “dove banche forti supportano pmi, famiglie e società”, e quello giapponese, “dove le banche hanno problemi di profittabilità e, di conseguenza, l’economia reale soffre”. Per carità di patria ed amor di bandiera lo studioso non cita la situazione tedesca, ove si sommano errori tipici del modello giapponese, a giudicare dai problemi delle Landesbank, mentre la scommessa di Deutsche Bank di creare un’alternativa ai banchieri Usa è miseramente andata in fumo, così come i quattrini investiti dall’istituto a Las Vegas nel tentativo sciagurato di far concorrenza alle banche d’affari d’Oltreoceano.
E’ in questa cornice che sta prendendo corpo la madre di tutte le fusioni, cioè il merger tra la prima e la seconda banca tedesca, Deutsche Bank più Commerzbank, un affare che ci riguarda da vicino, per più motivi.
- Nel caso la fusione vada in porto, è assai probabile una corsa a dimensioni più grandi per l’intero sistema bancario europeo, che oggi non ha istituti in grado di competere nei mega deal con le varie JPMorgan, Goldman Sachs o Morgan Stanley. Questo, però, non può che portare a grandi operazioni sovranazionali. Di qui l’accelerazione ad operazioni del tipo Unicredit-Socgen che non potranno coinvolgere i vari campioni europei, da Intesa a Banco de Santander.
- Come fa rilevare Massimo Maria Gionso, consigliere delegato di Cfo Sim,”l ‘operazione nasce sotto la spinta dal Governo e dovrebbe essere anche sostenuta economicamente dallo stesso. Questa cosa metterebbe di fatto in discussione le norme contenute nella cosiddetta riforma del Bail – In che hanno imposto agli Stati membri dell’Unione Europea di adottare regole per gestire le eventuali crisi bancarie utilizzando risorse private – presenti all’interno della banca stessa – in modo da evitare che il costo dei salvataggi gravi sui contribuenti e sul deficit pubblico”.
- Ma la normativa, spiega Gionso, “ ha creato e sta creando delle distorsioni sulla gestione del risparmio degli Europei. Le banche sono in crisi da molti anni a causa di una serie di fattori esogeni, come l’innovazione tecnologica, i bassi tassi di interesse, la crisi delle imprese e i cosiddetti NPL per la funzione che svolgono vanno meglio tutelate, se necessario anche con un intervento pubblico”. Molti settori economici sono sostenuti dallo Stato e a maggior ragione dovrebbe essere fatto per il sistema creditizio”.
- Insomma, “L’intervento pubblico tedesco, pone rimedio alla gestione di due banche in crisi da anni che rimangono fondamentali per il sistema economico del Paese. È corretto, a mio parere, un intervento di questo tipo, ma altrettanto importante sarebbe rivedere la normativa europea sulle crisi bancarie, perché non è detto che sia l’ultima da gestire in Germania e potrebbero accadere situazioni simili in altri Paesi”.
In gioco insomma c’è molto di più della nascita di una grande banca. Si tratta di rimettere in discussione la politica di un Continente che ha badato in pratica solo alla stabilità, giocando in difesa, senza badare alla crescita che, condizione necessaria seppur non sufficiente, impone strutture finanziarie all’altezza di sostenere il business.
Ma l’operazione tedesca va in questa direzione? Nel caso le nozze vadano in porto, nascerà un colosso con oltre 2mila miliardi di euro di impieghi (le dimensioni del pil italiano), più di 845 miliardi di depositi di depositi (più o meno l’ordine di grandezza di Citigroup), forte di 2.500 filiali in cui lavorano 141.000 dipendenti. Per ora, perché una delle conseguenze delle nozze sarà un robusto taglio del personale, tra le 20 e le 30mila unità. Anche questo ha finora impedito che queste nozze prendessero corpo nonostante lo stato di sofferenza, ormai cronico, dei due istituti. Ma la crisi, aggravata dall’esplosione a catena di scandali in casa Deutsche (l’ultimo riguarda le operazioni di riciclaggio per conto dei clienti russi attraverso il coinvolgimento di Danske Bank) rende ormai urgente un intervento che promette di cambiare il volto dell’intera industria del credito, almeno in Europa. Tutti sono d’accordo: le perdite (6 miliardi di euro negli ultimi due esercizi) e le multe inflitte dalla magistratura e dalle autorità di controllo di tutto il mondo (14,5 miliardi di euro, per ora) impongono un rapido cambio di rotta.
E’ con questa convinzione che a febbraio, lontano da occhi indiscreti, il ministro delle Finanze di Berlino, il socialdemocratico di Amburgo Olav Scholz, accompagnato dal suo vice, Jorg Kukies, ex banchiere d’affari arruolato in politica da Angela Merkel in persona, hanno incontrato in gran segreto all’ambasciata tedesca di Londra, i rappresentanti di altre grandi banche d’affari Usa per trovare una soluzione ai problemi dei due Big che, negli ultimi undici anni, hanno assorbito aumenti di capitale per 30 miliardi di euro e letteralmente steso al tappeto otto Ceo.
E’ scaturita da questo vertice la decisione di puntare sulla fusione. Una mossa cruciale per Scholz, che sa di giocare una partita decisiva per la sua carriera politica, proponendosi come l’uomo chiave per la Germania del dopo Merkel dimostrando, come già fece Gerhard Schroeder ad inizio millennio con la riforma del costo del lavoro, che solo i socialisti sono in grado di proporre con successo il taglio dei costi del lavoro (il segretario del sindacato bancari, Frank Bsirske siede nel consiglio di amministrazione).
Ma anche una mossa rischiosa perché non sono in pochi a pensare che “le nozze tra un cieco ed un sordo” sono destinate a non funzionare. Certo, a favore delle nozze ci sono le possibili sinergie tra i due istituti, oltre all’appoggio del fondo Usa Cerberus, grande azionista di entrambe le banche nonché di buona parte della comunità di affari che la pensa come il presidente di Deutsche Bank Paul Achleitner: la Germania, anzi l’Europa, ha bisogno di un grande player del credito indipendente.
Ma i più perplessi, tra cui anche lo sceicco Hamad Al Thani, ex premier del Qatar, forte del 6,1 per cento, fanno notare che l’operazione non aiuta a risolvere i problemi dei settori più sofferenti, dal corporate all’investment banking e rischia di danneggiare l’attività di Postbank, la banca retail comprata dalle Poste che si troverà a competere con la rete di Commerzbank. Ci vorranno poi investimenti massicci per rifare da capo sistemi It antiquati ed inefficienti. Di qui il ruolo determinante dello Stato, non solo in termini di quattrini ma di governance. E, non meno importante, la regia delle autorità bancarie. Anche italiane, perché la mega banca riguarderà pure noi.
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