Cultura

La bohème di una generazione di creativi adescata dal marketing

(GettyImages)

Vuoi un lavoro in banca? candidati con una apply. Vuoi pubblicare un romanzo? Allora submit il tuo testo. Per arruolarsi nei marines non serve nemmeno il “join” ma un fiero “become”, invece per esporre in una mostra la submission. Per un ruolo di junior manager vogliono la tua referenziata apply, ma per un concorso fotografico la tua totale submission.

E’ la pudicizia dell’arte addomesticata, l’oscenità dell’offrirsi della moderna porno-bohème: il ritratto di una generazione (la Next e buona parte della X) chiamata a stare al gioco molto pudico del mainstream, ma scandaloso per la logica dell’offerta all’arma bianca.

La galassia dei mestieri creativi è costruita intorno a questo imbuto. Rientrando nel novero dei mestieri non essenziali il mercato del lavoro alle prese con l’automazione e la smart economy digitale si trova con un eccesso di offerta in termini di creatività. Molti sono gli aspiranti artisti, pochi quelli che riescono ad emergere. Nei bar boutique di Londra e di Milano, di Parigi e di New York siedono tutto il giorno sceneggiatori, ballerini, pittori, scrittori, designer e art performer in attesa di una chance.

Per chi non riesce a emergere nello stretto cono di luce dello show business (musica e televisione i canali principali) il sistema culturale occidentale ha escogitato il criterio delle submission. Istituzioni culturali, festival, fondazioni aprono le proprie porte (in apparenza) a candidature per progetti da finanziare, che altrimenti non avrebbero mai la possibilità di essere realizzati.

Questa democrazia nasconde alcune insidie, legate tanto ai criteri di accesso quanto alle percentuali di successo. Essendo i primi molti specialistici e le seconde molto scarse (date la rilevanza numerica degli aspiranti artisti o creatori di contenuti) le percentuali d’insuccesso sfiorano il 90% delle domande.

Nulla di male, è la vita, se tuttavia non fosse per tre considerazioni. La prima è semantica: le domande sono vere e proprie submission. Una volta, nelle società contadina, si sarebbe detto “presentate col cappello in mano”. L’arte e la creatività, è noto, attingono al proprio personale, significano disvelare, denudare quella porzione di privato che, sublimata nell’opera d’arte, ne fanno un messaggio universale. Gli artisti devono insomma submit dossier nei quali illustrano la propria idea a commissioni giudicatrici che, sin dal principio, sanno che potranno accogliere solo una minima parte del totale.

Inoltre, è proprio questa massa critica di candidature a dare senso d’esistere alle fondazioni e a permetter loro di dimostrare ai propri sponsor (pubblici e privati) di intermediare e intercettare i flussi dell’arte di oggi e di domani e quindi di giustificare la propria esistenza. E infine, gli artisti che “imparano” il meccanismo delle submission, rispondono a esso prima che all’Arte: in altre parole fanno aderire la loro creatività ai bandi e non viceversa. Evolvono in professionisti della compilazione, e decadono come artisti.

Vale, questo discorso, anche per l’editoria, che da una parte si assicura un posizionamento grazie al lavoro delle redazioni stabili, ma con i freelance (altra categoria costretta, dal gioco delle parti, a submit idee a ripetizione) rende l’offerta della testata più interessante, più à la page. Solo ieri una e-mail giunta da Manhattan ha lasciato intravedere una crepa nel sistema. La fondazione che chiama i creativi all’ennesima submission ha tenuto a specificare due cose importanti: non occorre che essa venga presentata articolata (basta l’idea, se piace, lavoreremo insieme…) e soprattutto: tranquilli, essa non verrà valutata da un junior editor ma dal senior editor.

Le due rassicurazioni suonano, e non poco, sulla difensiva. Dai bar bohème qualcuno inizia forse a rendersi conto che non si può passare la vita a far sottomissioni, e ha smesso di stare al gioco? O gioco per gioco, allora è meglio il mercimonio della creatività al soldo del marketing. Il tema non andrebbe sottovalutato, dal momento che il mainstream tende a modellare un cliente fatto su misura. Per chi non rientra nel perimetro mediocre ma redditizio del binomio tifo calcistico e turismo da weekend, ma ancora non si è dato all’anarchia distruttiva punk inspired, l’arte è il solo veicolo d’espressione di creatività e di libertà. L’arte, insomma, è l’ultimo baluardo e il marketing, che non è nato ieri, l’ha preso d’assedio.

Una libertà con due strade di fronte: o quella selvaggia, ma tutto sommato onesta, del mercato, per cui è l’imponderabile a decidere quale artista è quotato e quale no; o quella democraticamente addomesticata delle submission dove due generazioni sprecano i propri anni (e la propria privacy, i progetti artistici sono tutti, abbiamo detto, un racconto di sé) per fare da corollario, da arredo, al vivere sociale. Stasera a teatro, sabato cinema e magari a comprarsi un quadro dopo un vernissage, fatale un bicchiere di troppo.

Certo, in un mercato del lavoro complesso, la definizione stessa di carriera, tradizionale o artistica, muta di segno. Ma nessuno deve sentirsi al sicuro, perché muta il segno anche della legacy. Un esempio: poche settimane fa è morto Bruno Ganz. Con cinica logica mainstream, diversi giornali hanno titolato quasi in coro: “addio a bruno Ganz, fu Adolf Hitler”. Avrebbero potuto scrivere fu l’angelo sopra Berlino di Wim Wenders, oppure fu se stesso in Pane e Tulipani recitando a memoria l’Ariosto. Invece questo grande attore è diventato virale suo malgrado, condannato a vita a essere storpiato via You Tube come un simulacro di Hitler che s’incazza – a Milano o a Buenos Aires – se l’Inter o il River vanno male, oppure se c’è sciopero dei mezzi pubblici.

Il mainstream non fa sconti ai grandi, e sottomette gli aspiranti tali spingendoli tra le braccia del marketing. Ma attenzione: la bohème allungata della Generazione X e della Next Generation – chiamate tra non molto, per dovere di scaglione, a sostenere i sistemi previdenziali dei baby boomer – riguarda tutti. E i pochi artisti veri si consolino, se sanno di esserlo questo deve bastargli. Come a vent’anni basta e avanza, cantava Aznavour, un café crème per cena.

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