La privacy è un diritto. Ma lo è anche la mancia, secondo i rider del collettivo Deliverance Milano. Lo scorso 25 aprile, il gruppo politico di precari e fattorini attivi nel delivery food ha pubblicato la “lista nera” dei personaggi famosi che, dopo aver prenotato online pranzi e cene, non avrebbero pagato l’extra per la consegna. Un’opzione prevista dal servizio, anche se non obbligatoria. Sulla blacklist, pubblicata sulla pagina Facebook del collettivo, sono finiti la regina dei social Chiara Ferragni, i calciatori Gonzalo Higuain, Philippe Mexes e Mauro Icardi, ma anche star della tv come Teo Mammuccari e Platinette. Nel post si minacciano future ritorsioni contro i clienti meno generosi: “Ricordatevi sempre una cosa – scrivono gli attivisti – noi entriamo nelle vostre case, vi portiamo il cibo e qualsiasi altra cosa vogliate, a tutte le ore del giorno, siamo in strada sotto la pioggia battente o sotto il sole cocente, senza assicurazione. Sappiamo cosa mangiate, dove abitate, che abitudini avete”. Come esplicitato dalla policy privacy di Deliveroo, sia le consegne che le mance ottenute dai rider sono registrate dall’applicazione. Dati in mano alle società, sì, ma anche ai lavoratori.
La gig economy si ribella alla data economy
Ecco perché la provocazione dei protagonisti della gig economy, la cosiddetta “economia dei lavoretti”, va dritta al cuore della data economy, l’economia basata sui dati: “Si produce valore in tutti i modi possibili, dal servizio di vendita del prodotto al trasporto a domicilio delle merci, fino alla mappatura dei dati, alla loro analisi e alla loro compravendita” scrive il collettivo. Che si pone un quesito: “La domanda è che cos’è la privacy nel 2019? Per noi è nuovo welfare indotto dal denaro raccolto dalla monetizzazione dei nostri dati e la redistribuzione di tale ricchezza”.
La privacy è un lusso per ricchi e un problema per poveri
“La privacy non è più un diritto” quindi secondo i rider. Prima ancora dell’avvento di hacker e informatici, la sua violazione è stata il campo di gioco dei paparazzi, ma anche quello di battaglia a difesa della libertà di cronaca dei giornalisti. Questa volta, però, l’arma viene impugnata dai lavoratori, come strumento di lotta di classe e di giustizia sociale. Con un messaggio che va oltre la contingenza della protesta: la protezione dei dati personali è sempre più un lusso per pochi. La privacy esiste solo per chi se la può permettere? Si chiedeva qualche anno fa la giornalista Julia Angwin, che sul New York Times denunciava di aver speso 2.200 dollari in un anno e tante energie per proteggere i propri device da pericolosi criminali online o da semplici vojeur ai coffeshop. La risposta a quella domanda è affermativa, secondo il gruppo di studiosi americani autori della ricerca “Privacy, Poverty, and Big Data: A Matrix of Vulnerabilities for Poor Americans” pubblicata due anni fa. Lo studio dimostra che gli utenti online che hanno il reddito più basso sono sì i più preoccupati delle finalità delle raccolte dati a scopo commerciale, ma anche quelli che usano meno accortezze nell’uso di strumenti digitali.
Big data vs little governance
I big data, vale a dire l’aggregazione, l’analisi, e l’uso di enormi quantità di informazioni digitali, possono permettere un maggiore accesso al sistema economico per i più poveri, spiegano i ricercatori. Ma possono anche aumentare il gap economico, rendendo più semplice aggredire le persone più svantaggiate o escluderle in base a decisioni prese da algoritmi. Lo studio, basato su una survey che ha coinvolto 3000 americani, parla di una vera e propria discriminazione digitale delle classi più povere e chiede una riforma della legge sulla privacy che sia indirizzata a chi è maggiormente vulnerabile. Lo “svantaggio nel negoziare la privacy digitale” è denunciato anche da un recente contributo accademico sulla digital health nei Paesi più poveri, in cui si promuovono soluzioni a livello di governance per trarre dai big data il massimo beneficio per la salute con il minimo dei rischi per le persone.
I big data sono i “guardiani dei poveri” di oggi
Il problema non è nuovo, spiegano gli autori dello studio americano, perché i più poveri sono sempre stati vittima di invasivi sistemi di controllo. Ma la quantità di dati che abbiamo a disposizione oggi ci mette di fronte a un pericolo di sorveglianza di massa di inedite dimensioni, avvertono. Se nell’800, in America, esistevano figure come il “guardiano dei poveri”, addetto a verificare persino l’adeguatezza morale delle classi sociali più basse, oggi i dati provenienti dai social media possono venire aggregati per fare previsioni su comportamenti e scelte individuali di milioni di persone.
Il nuovo digital divide è su mobile
All’inizio dell’era web, i poveri erano vittime di un diverso tipo di digital divide: non potevano accedere alla vita online a causa del costo dei computer e della connessione. Oggi, anche grazie al mobile, le persone svantaggiate sono sempre più online e sempre più esposte. Perché per esempio, spiegano gli studiosi, comprano un android a buon prezzo piuttosto che un iPhone in cui I dati sono criptati di default ed è più difficile per la polizia, i governi o le compagnie telefoniche intercettarli.
Chi ha paura dei dati?
È la stessa diseguaglianza denunciata dai rider, che hanno osato sfidare con un’app quello che i primi teorizzatori del concetto di privacy chiamavano “il diritto a essere lasciato da solo”, minacciato nell’800 da due innovazioni: la “fotografia istantanea” e i giornali. Nel 1890 due professori di legge di Harvard pubblicarono un volume intitolato “Diritto alla privacy”, chiedendo un aggiornamento legislativo che avrebbe garantito alle persone di proteggersi da “recenti invenzioni e nuovi modelli di business”. La privacy, allora più di ora, era un cruccio esclusivo delle classi benestanti. Oggi i dati sono in mano a pochi, ma i nuovi strumenti in grado di diffonderli, invece, sono alla mercé di chiunque. E ciò ha permesso ai rider di fare una mossa inedita: usare nuovi strumenti contro una vecchia paura.
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