Abbraccia un arco di tempo assai esteso il saggio di Gian Piero Piretto, Quando c’era l’Urss – 70 anni di storia culturale sovietica (Raffaello Cortina Editore, 2018), prendendo le mosse dai furori della rivoluzione del 1917 per arrivare fino all’era di Michail Gorbaciov, e al suo tentativo fallito di trasformare dall’interno un impero in decadenza, attraverso la prestroika e la glasnost, ovvero ricostruzione e trasparenza, il quale non fu altro che l’ultimo scossone che determinò lo sfaldamento e il crollo dell’Unione Sovietica.
Il merito del libro è quello di intrecciare le diverse fasi della politica che caratterizzarono la storia dell’Urss con quelle che furono le tensioni culturali che la attraversarono, cercando di raccontare la vita e il ruolo dei grandi artisti che si avvicendarono lungo quei settant’anni, l’iconografia, la politica culturale del partito, le sensibilità degli strati più estesi della popolazione e quelle del pubblico più colto. E vista la molteplicità degli spunti e delle suggestioni, si tratta di uno sforzo improbo, quasi titanico, che però di sicuro raggiunge almeno un obiettivo importante, il più importante, quello di restituire la complessità e le trasformazioni della storia dell’Urss e della sua cultura, intesa nel senso più ampio, all’interno della quale le differenze, di epoca in epoca, furono numerose e ben più profonde di quanto possa immaginare chi di quel tempo e di quel mondo abbia una visione esteriore e superficiale.
I poli estremi di questa storia culturale dell’Urss sono da un lato gli slanci avanguardistici, per un breve periodo quasi in simbiosi con lo spirito rivoluzionario, di artisti come il poeta Vladímir Majakóvskij e il regista teatrale Vsevolod Mejerchol’d e dall’altro la perdita della ragion d’essere, proprio per via della libertà permessa dalla glasnost gorbacioviana, di movimenti culturali come quello dei Mit’ki, ispirato a una filosofia zen e, se così si può dire, di nichilismo gaudente che intendeva contrastare il rigore e il dover essere di impronta sovietica, e di gruppi rock come quello dei Kino, il cui leader Viktor Coj perde la vita prematuramente, e simbolicamente, in un incidente d’auto nel 1990. Proprio Majakóvskij, nel 1918, ebbe a dire: “Lo scoppio della Rivoluzione dello spirito ci purificherà dal ciarpame della vecchia arte”.
E il suicidio di Majakóvskij, la mattina del 14 aprile del 1930, idealmente chiude l’epoca bolscevico-rivoluzionaria e apre la lunga e oscura fase staliniana. Non ci sono parole migliori per spiegare la trasformazione e il senso di questo spartiacque storico di quelle che il poeta scrisse prima di togliersi la vita: “La barca dell’amore si è spezzata contro il byt”. La parola byt, che letteralmente è il modo infinito del verbo essere, è centrale per comprendere l’immaginario culturale e storico russo e non è traducibile in italiano, o meglio può essere tradotta soltanto attraverso dei concetti complessi, con un discorso che restituisca un’atmosfera, un contesto o un ambiente.
Byt si può tradurre con “abitudini, costumi, vita quotidiana” di un popolo o di un gruppo sociale. Secondo Jurij Lotman, il grande semiologo russo, il byt andrebbe identificato con “il consueto scorrere della vita nelle sue forme pratico-reali”. Byt, in pratica, sono le nostre abitudini e le cose che ci circondano nella vita di tutti i giorni. Oltre a questo, come suggerisce Piretto, in quella riflessione di Majakóvskij byt starebbe anche per politica, relazioni sentimentali, delusione, rivoluzione, e loro sviluppi. E forse, sempre nell’idea del poeta, a queste parole, sia pure con cautela, si potrebbero aggiungere aggettivi come bolscevico, rivoluzionario, staliniano, socialista.
Sintetizzando il senso della metamorfosi, che in economia si manifestò con una industrializzazione forzata e con una radicale collettivizzazione delle terre, Piretto dice che “Stalin operò un arresto dello scorrere naturale degli eventi, immobilizzò la storia e la fece scorrere secondo regole e categorie di sua scelta”. Ogni ambito del vivere sociale fu gerarchizzato, e mentre si sopprimeva la libertà di religione, il leader venne deificato. Si istituirono i carnevali totalitari che, sostituendo manifestazioni precedenti più spontanee e popolari, miravano a formalizzare e a standardizzare l’estetica collettiva e si risolvevano in sfilate teatralizzate, raduni e parate belliche.
Con il successore Nikita Chruščëv, dal 1953, si volta pagina e si denunciano gli errori e i crimini di Stalin. Appena quattro anni dopo, il 28 luglio del 1957, a Mosca ebbe luogo il VI Festival mondiale della gioventù e degli studenti: per due settimane la città, in cui si tennero incontri, dibattiti e rassegne culturali, accolse 34.000 persone provenienti da 131 paesi diversi. Basta per comprendere la portata dell’evento il fatto che fino ad allora nessun sovietico aveva potuto avere a che fare con degli stranieri. Piretto descrive così disgelo chruščëviano: “Aperture improvvise, che illudevano e facevano sperare, seguite da altrettanto repentine e punitive marce indietro. Segnali dell’insicurezza e dell’impreparazione del leader, ma anche di una sua caparbia quanto stravagante volontà di innovazione”.
Tra i segni del cambiamento c’è la diffusione presso i lettori sovietici dei romanzi di Ernest Hemingway, e in particolare di Fiesta, con quella sua atmosfera, per così dire, romanticamente liberatoria. Hemingway fu apprezzato più che per la qualità della sua scrittura per la percezione che si aveva di lui come uomo, ovvero del suo stile, del suo personaggio. I giovani sovietici, tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’60, erano desiderosi di vita autentica, di sincerità, di piaceri semplici e profondi, e così Hemingway e le sue opere divennero l’icona letteraria di questo nuovo immaginario. Circa dieci anni più tardi, in piena epoca brezneviana, per moltissime persone il cantautore Vladimir Vysockij ebbe un ruolo analogo a quello di Hemingway: “maledetto”, alcolista, e morto prematuramente, interprete mitizzato dei valori libertari e di protesta della generazione post-staliniana, ma non apertamente antisovietico né riconducibile alle aree del dissenso politico.
Il libro è, tra le altre cose, ricchissimo di aneddoti, digressioni, approfondimenti, fotografie, illustrazioni, e di tutto quanto possa aiutare a raccontare un mondo nato per contrapporsi a quello occidentale e capitalistico, di cui pure cercava di prendere e rielaborare in una realtà differente contenuti e suggestioni culturali. A questo riguardo sono degne di curiosità le copertine delle rivista satirica Krokodil che, con i loro colori vivaci e una grafica naif e curata insieme, oggi possono sembrarci grottesche oppure farci sorridere, ma a modo loro rappresentano una specie di piccola controstoria del ‘900.
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