di Anna Zanardi Cappon
Adam Neumann, fondatore ed ex ceo di Wework, è l’ennesima dimostrazione di quanto l’equivalenza aihmè fin troppo frequente, fra genio creativo e imprenditore di successo sia letale. Innanzi tutto per il soggetto stesso che si trova catapultato in una voragine dagli ingredienti a lui sconosciuti, poi per chi ha creduto in lui, shareholder tutti, compresi dipendenti, investitori e comunità impattate dalla sua azienda. Ma c’è forse un ulteriore elemento che è più generazionale e attraversa le generazioni seguenti la mia, quella dei baby boomers, includendo solo tangenzialmente la X, ma travolgendo la Z, i Millennials e chi a seguire. Credo infatti che i baby boomers siano stati gli ultimi a vivere la crisi come un elemento di discontinuità in una vita lineare, un accidente imprevisto in un ordine funzionante. Le generazioni seguenti fanno della crisi un elemento identitario, profondamente caratterizzante le loro personalità e modalità di interazione col mondo. E questo apre le porte a una diversa visione del rischio, anche di quello imprenditoriale, oltre alla nascita di nuove tipologie di crisi, che vanno riconosciute e governate. Altrimenti accadono disastri, più o meno annunciati, di cui Wework è un esempio. Ci dobbiamo dunque porre il problema di una nuova capacità di leadership e prima ancora di governance, rivolto a svelare e trasformare in apprendimento nuove crisi costanti. Wework , come altre aziende, sembrano epiloghi di ambienti in cui va sempre (apparentemente) tutto bene, tutto risponde a criteri compliant con le aspettative. Si configura così una crisi congelata in cui l’autoconferma e l’autoreferenzialità porta a esplosioni fallimentari quando ormai è troppo tardi. Infatti la crisi finale si ammette che esiste solo quando è esplosa – Thomas Cook per intenderci – è irreversibile e non si salva nessuno.
L’ imprenditore pare in preda a una crisi d’insignificanza, in cui è chiara la fatica che ha fatto per arrivare al traguardo agognato, ma l’attenzione che riceve in cambio non è mai sufficiente, anzi gli conferma che il mondo è indifferente ai suoi successi e quindi non gli resta che scatenare una crisi-istituzionale, politica, organizzativa-cosi da essere notato. Per poi ritrovarsi, a distanza di qualche mese, in una crisi inutile. Quella che investe coloro che nulla imparano dal proprio agire, non imparano nulla dalle cose che accadono. Poiché purtroppo non è vero che s’impara dall’esperienza; si impara se si è liberi di imparare. L’esperienza insegna se ci si lascia insegnare. Cosi come la vita parla se c’è un cuore che ascolta, altrimenti resta muta. E al prossimo giro di giostra, se ce ne sarà ancora uno, ci si trova riconfrontati con le stesse dinamiche. Per cui è facile reagire con una crisi dislocata: mi sento male dentro ed investo del mio malessere, nel senso letterale del termine, chi sta fuori da me, lo proietto al di la di me su un malcapitato. Ne conseguono, e ne vediamo, guerre epiche solo per allocare il proprio malessere da qualche parte distruggendo valore e posti di lavoro.
Ma la nostra epoca è esperta in crisi non integrate: le si subisce passivamente, le si risolve velocemente, le si digerisce mai. Restiamo attoniti, andiamo oltre senza interrogarci sull’impatto profondo che hanno sulla nostra vita e sulla nostra anima. Chiudiamo la vertenza subito…e non ci preoccupiamo della digestione intrapsichica che invece è sempre necessaria per andare oltre in maniera autentica e definitiva.
Insomma solo una rapida carrellata per spiegare cosa avviene nel mondo attuale , improntato anche sull’imprevedibile susseguirsi di crisi, che mai portano a una risoluzione, ma al massimo al fallimento di un’Ipo e a un po’ di ego ferito. Tutto superabile e banalmente, inutile.
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