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E se più capitalismo (non meno) fosse la soluzione al cambiamento climatico?

Foto di Artur Lysyuk da Unsplash

È vero: la distanza tra dove dovremmo essere e la realtà dei fatti è enorme. Questa settimana si tiene a Madrid la 25esima conferenza sul clima delle Nazioni Unite, e lo stato delle cose è effettivamente desolante. Le emissioni di anidride carbonica (CO2) e altri gas serra, invece di diminuire, continuano ad aumentare. Di questo passo, ci informa l’ultimo rapporto dell’Unep (l’agenzia per l’ambiente dell’Onu), si va verso una crescita della temperatura media sulla Terra pari a 3,2 gradi Celsius entro la fine del secolo. Con effetti sul clima probabilmente disastrosi. L’obiettivo, fissato quattro anni fa a Parigi, sempre durante una conferenza Onu sul clima, è invece contenere l’aumento ben al di sotto di 2 gradi Celsius.

Per restare sotto un grado e mezzo, a questo punto uno scenario idilliaco, c’è bisogno di tagli draconiani. Nella prossima decade la produzione di gas serra dovrebbe calare del 7,6 per cento ogni anno. I paesi del G20, ossia le economie più avanzate al mondo, sono responsabili del 78% di tutte le emissioni gas serra, e ce ne sono quindici tra loro che ancora non si sono impegnati ad un piano preciso di zero emissioni nette.

È giusto quindi pretendere di più, fanno bene Greta Thunberg e altre migliaia di ragazzi a scendere in strada e protestare. Ed è anche molto comprensibile che parecchi commentatori spingano per un drastico cambiamento di sistema economico. Parla chiaro il titolo del bestseller di Naomi Klein, punto di riferimento della sinistra ambientalista: “This changes everything: Capitalism vs. the Climate”. O di questo articolo di Phil McDuff uscito sul Guardian titolato: “Ending climate change requires ending capitalism”. In sostanza l’intero nostro modello risulterebbe incompatibile con l’ambiente, perché basato su un assurdo: pretendere crescita infinita in un pianeta di risorse finite. Va ribaltato. McDuff ci domanda: “Abbiamo abbastanza fegato per farlo?”.

Uno scienziato con un cognome curiosamente simile pensa che in realtà non ce ne sia bisogno. Andrew McAfee, che dirige una squadra di ricerca al MIT, ha appena dato alle stampa un libro (“More from Less: The Surprising Story of How We Learned to Prosper Using Fewer Resources―and What Happens Next”) decisamente ottimista sul futuro dell’umanità – o almeno per chi vive in paesi già ricchi e ben amministrati. La sua osservazione più sorprendente riguarda l’economia degli Stati Uniti. Negli ultimi due decenni, il tenore di vita materiale degli americani ha continuato a crescere. Ma questo è successo, e qui starebbe la sorpresa, consumando meno risorse fisiche, come acqua, metalli e materiali da costruzione.

McAfee scrive: “Abbiamo imparato a trattare con più gentilezza il nostro pianeta. Anno dopo anno negli Stati Uniti inquiniamo meno l’aria e l’acqua, e produciamo meno gas serra, e vediamo che stanno tornando molti animali prima quasi spariti. Contemporaneamente la popolazione e l’economia americane crescono. Questo significa che l’America ha superato il suo picco nello sfruttamento della Terra. La situazione è simile in molti altri paesi ricchi, e persino i paesi in via di sviluppo come la Cina si stanno prendendo cura del pianeta in modo notevole”. Bombardati come siamo da notizie sull’imminente catastrofe climatica, pare un’allucinazione: il professore sta forse delirando?

In realtà dice cose piuttosto ovvie. Per rendersene conto basta andare sul sito dell’agenzia federale americana di protezione ambientale. Tra il 1980 e il 2018, mentre l’economia degli Stati Uniti cresceva del 175%, il traffico sulle strade del 111, il consumo di energia del 30 e la popolazione del 44%, le emissioni totali dei sei principali inquinanti atmosferici sono diminuite del 68 percento. La produzione di CO2, uno dei primi gas serra, è aumentata complessivamente del 12%, ma dal 2005, come si evince da questo grafico, si sta abbassando. Non è una bizzarria. Gli Stati Uniti piuttosto confermano la curva ambientale di Kuznets (economista americano premio Nobel nel 1971). Secondo questa teoria, che va ricordato è oggetto di molte critiche, il rapporto tra inquinamento e crescita economica può essere descritto da un modello a forma di U. All’inizio la crescita economica danneggia l’ambiente, ma dopo un po’ rende le cose più pulite. Un rallentamento o addirittura un’interruzione della crescita finirebbero solo per ritardare i progressi nella cura ambientale. A quanto pare è successo così anche in Repubblica Ceca.

Negli Stati Uniti le prime regole per controllare gas nocivi furono emanate da Chicago e Cincinnati nel 1881. Seguirono tante altre città, e alla fine sono state adottate regole federali. Manca ancora la “carbon tax”, ossia una tassa sulle emissioni di anidride carbonica. Proprio di questo strumento si sta discutendo alla conferenza sul clima di Madrid. A livello globale questa tassa copre il 15% delle emissioni ed è presente in 50 paesi (anche la Cina non ce l’ha). Non esiste però un accordo su quanto debba pagare chi inquina. In Svezia una tonnellata di CO2 “costa” 127 dollari, il prezzo più alto al mondo. Ma nella maggior parte paesi è di meno di 25 dollari a tonnellata. Secondo gli esperti per centrare gli obiettivi di Parigi la tassa dovrebbe oscillare tra i 40 e gli 80 dollari. Finora solo l’1% delle emissioni è coperto da un importo del genere. “La scienza ci dice che il nostro futuro è radicale”, afferma Naomi Klein. Ma forse basterà una tassa a salvare il mondo.

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