Fulvio Montipò incarna una storia imprenditoriale, ma ancor prima umana, che pare uscita dalla penna di un romanziere d’Ottocento, Dumas padre per esempio. Una storia di riscatto e ascesa. Papà e mamma fanno gli stagionali in Svizzera e in quanto tali vi stanno per nove mesi alloggiando in una baracca. Lui brilla a scuola, e due docenti illuminati fanno in modo che possa proseguire gli studi con borse di merito. Studia, studia e lavora, si laurea, entra in un’azienda dove cresce in un baleno. A un certo punto vuole fare da sé, e nel 1977 crea dal nulla Interpump Group e ne fa la leader mondiale nel settore delle pompe ad alta pressione, più di 1,3 miliardi il fatturato. In giugno il gruppo è entrato nell’indice d’eccellenza Ftse Mib.
Fulvio Montipò, presidente e a.d. di Interpump Group, è il tredicesimo protagonista del ciclo di interviste dedicate al D.C. (Dopo Coronavirus) progettato dai grandi dell’imprenditoria italiana.
Ha dichiarato che “Interpump è figlia di un sogno post-bellico, della miseria più cattiva, del desiderio di riscatto”. Si fanno parallelismi fra l’oggi e la fase post-bellica. Ma Lei vi trova analogie?
Non vedo analogie, se non trascurabili, fra l’oggi e la fase post-bellica. E’ totalmente diverso il quadro culturale generale. La fase post-bellica era caratterizzata dalla distruzione, da un livello di disoccupazione altissimo, da una difficoltà vera e diffusa per sfamare famiglie, anche numerose, che non possedevano letteralmente alcunché. Era un tempo in cui il sacrificio non pesava, era la norma e l’anelito ad uscire dalla miseria era il sogno di tutti. Per questo erano tempi in cui la quantità di sogno e di bisogno era alta.
Oggi viviamo invece una difficoltà di tipo diverso. Non c’è la distruzione, non c’è la stessa disperata fame del dopoguerra, non c’è la stessa disponibilità al sacrificio, un quadro di difficoltà connaturata ad una società completamente mutata dove il senso del diritto è fortunatamente alto, ma il senso del dovere è andato attenuandosi. Le giovani generazioni sono comunque più formate, più critiche, in una parola migliori rispetto al passato.
I sogni non finiranno perché il sogno è connaturato all’esistenza.
Pil in caduta libera, debito pubblico alle stelle, tensioni sociali all’orizzonte. Davvero in Italia questa grande crisi si può trasformare in un’opportunità?
Le crisi sono per definizione momenti di grande creatività perché il bisogno riaccende i sogni e le voglie di uscire da situazioni di difficoltà.
E’ innegabile che il nostro debito pubblico abbia raggiunto livelli altissimi e non possiamo continuare immaginando che lo pagheranno le future generazioni. Mi auguro che la crisi diventi un catalizzatore positivo che acceleri una presa di coscienza collettiva che metta in moto la reazione buona, che non conti più esclusivamente sul sussidio ma sul “fare”.
Il presidente di Confindustria punta l‘indice contro la politica di sussidi ricordando che le risorse non sono infinite. Un commento
Vale quanto si diceva prima. Le risorse per i sussidi sono finite. La cultura esclusiva del sussidio pare dettata da opportunità politiche. Questo è purtroppo un tempo privo del “coraggio del bene”. La solidarietà è un grande valore ma è fondamentale coniugarla col senso di responsabilità e con l’azione costruttiva.
Per accedere al Recovery Fund, l’Italia è chiamata a promuovere riforme in linea con le priorità Ue. C’è chi boccia l’idea di parametri e condizioni e chi invece ne coglie lo stimolo per svecchiare il Paese. Lei cosa pensa?
E’ indubbio che il Paese vada svecchiato e semplificato. Il piano non può prescindere dall’immaginare un paese nuovo. Occorrerà visione e coraggio, tuttavia questo è il momento propizio.
La ricostruzione di un Paese dovrebbe partire dalla scuola. Proprio nella scuola Lei trovò la rampa di lancio di una brillante carriera. Che opinione ha della scuola italiana del Duemila?
Certo, la scuola è un capitolo fondante. Occorrerà coniugare meglio lo studio e il lavoro per accelerare l’indice di maturità degli studenti. La scuola è per definizione sempre buona. Io non ho facoltà preveggenti né formule già scritte.
La scuola sarà tanto più ricca di frutti se coloro che la progettano saranno ricchi di capacità progettuali e di talento. Incasseremo insomma quello che andremo seminando.
Uno dei punti di forza di Interpump è la strategia delle acquisizioni. Lei acquisisce concedendo all’azienda la possibilità di mantenere il capitale umano. Perché questa scelta?
Io credo che dentro tutte le imprese ci sia una storia di pensiero, di fatiche, di errori e di successi; considero questo un patrimonio da non perdere ma eventualmente da integrare. Chi acquista aziende e le colonizza, butta via il patrimonio di cui parlavo prima e l’acquisitore resta sempre solo col suo pensiero. Se invece conserva, valorizza e integra, il suo pensiero cresce ogni volta che acquisisce una storia.
Interpump è appena entrata a far parte dell’indice FTSE Mib, fra le 40 principali società quotate italiane. Quali sono i prossimi obiettivi strategici e finanziari del gruppo nel medio termine?
Il pensiero è sempre quello: semplice e antico. Chi fa questo mestiere che io definisco il mestiere della speranza, ha un obiettivo solo e un solo credo: crescere. Che significa diventare migliori, più forti, crescere nella qualità, nell’organizzazione, nella trasparenza, nella sostenibilità: insomma lavorare per diventare migliori, coltivare l’ossessione buona del meglio, ogni giorno, in ogni decisione. Pertanto noi continueremo così, come sempre, con la voglia e la speranza di diventare più belli.
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