A distanza di vent’anni dalla morte di Enrico Cuccia, fondatore e gran patron di Mediobanca – la maggior banca d’affari italiana – è giusto ricordarne la figura e valutarne, con il distacco temporale necessario, l’operato.
Nato nel 1907, Enrico Cuccia, dopo la laurea in giurisprudenza (nel frattempo collaborava come giornalista al “Messaggero”) ha lavorato al Banco Sudameris a Parigi, per poi prestare servizio in Banca d’Italia. Nel 1934 venne distaccato presso l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) – il cui direttore generale era Donato Menichella, straordinario personaggio (fu poi governatore della Banca d’Italia dal 1948 al 1960), dimenticato da quest’Italia immemore.
Successivamente, Cuccia ebbe modo di lavorare presso la Banca Commerciale Italiana guidata da Raffaele Mattioli, con il quale fin dal 1944 progettò la fondazione di un “ente specializzato per i cosiddetti finanziamenti a medio termine”. Nel 1946 fu nominato direttore generale e nel 1949 amministratore delegato di Mediobanca.
Enrico Cuccia, «un siciliano a Milano», «siciliano delle montagne, di sangue freddo» – come lo definí Guido Carli, è stato un indubbio protagonista della finanza italiana e ha inciso profondamente sulla storia del capitalismo domestico. Leopoldo Pirelli soleva dire: «Ciò che Cuccia vuole, Dio vuole». Aggiungeva Ugo La Malfa: «In economia non si può fare nulla se lui non è d’accordo».
Cuccia ha fatto il bello e il cattivo tempo, spesso ha deciso le sorti delle imprese e delle famiglie che le controllavano. I giudizi sul suo operato sono contraddittori. Quelli che hanno bussato alla sua porta lo considerano come l’uomo che ha fatto crescere il capitalismo italiano nel dopoguerra. Coloro che non hanno avuto bisogno dei suoi denari né dei suoi consigli hanno un’opinione negativa. Renato Cantoni, operatore di punta della Borsa italiana, sosteneva: «Cuccia è un genio del male convinto di essere l’angelo custode del capitalismo». Marco Vitale ha sempre pensato che il sistema costruito attorno a Mediobanca e alle tre banche di interesse nazionale (Credito Italiano, Comit e Banco di Roma) sia servito «non per far crescere il capitalismo italiano ma per mantenere l’ordine, lo status quo, l’ancien régime». Come ha scritto Salvatore Bragantini, «nessuno dei grandi protégés di Mediobanca è riuscito, pur avendone certamente le potenzialità, a diventare un attore a tutto campo sul piano mondiale».
Pur di mantenere il controllo familiare, i gruppi industriali italiani hanno rinunciato a crescere. E Cuccia li ha assistiti, forse accuditi troppo, consapevole che la materia prima fosse immodificabile. Oggi possiamo sostenere con amarezza che la sopravvivenza dei grandi gruppi industriali è risultata incompatibile con il controllo da parte di una famiglia, che spesso ha scelto il management con metodi feudali e basandosi esclusivamente sul criterio della fedeltà.
La domanda che dobbiamo porci oggi è quale ruolo abbia giocato Enrico Cuccia nell’economia italiana. Nel volume “L’Italia molti capitali, pochi capitalisti”, mi sono chiesto che fine abbia fatto il capitalismo italiano. Da questa lunga analisi è emersa l’incapacità della grande impresa privata italiana di trovare la via del proprio sviluppo. Ha cercato di arroccarsi attorno a Mediobanca. “Ho dovuto fare le nozze con i fichi secchi” disse Enrico Cuccia […]. Esaurito il ruolo dell’IRI, è mancata clamorosamente la grande impresa privata, che è stata foriera, piú volte nella storia italiana, di molte illusioni. L’industria italiana non ha mai fatto da sé. Due personaggi, ben prima di Cuccia, l’hanno tenuta in piedi: Bonaldo Stringher e Alberto Beneduce […]. Il capitalismo privato italiano si è dimostrato inadatto alle sfide del suo tempo. Sono emersi vecchi limiti: un capitalismo senza capitali, scarsa attitudine a rischiare, tentazione di adagiarsi sull’investimento dello Stato […]. Invece di stimolare la classe politica a produrre le condizioni adatte per fare impresa e creare un clima favorevole allo sviluppo, i grandi imprenditori hanno chiesto aiuti, sussidi […] spingendo l’Italia verso un modello di “capitalismo assistenziale”.
Sempre Bragantini ha fatto notare che «la Mediobanca di Enrico Cuccia lo usò [il potere], ma per proteggerle [le grandi imprese] in un campo trincerato, piegandole ai comodi di chi le controllava, per lo piú con soldi altrui. L’approccio “dominicale” contribuí alla perdita di peso delle nostre imprese nel mondo; i domini le vedevano come private proprietà, dimentichi delle loro esigenze di sviluppo. Senza accesso a denari e a capacità di gestione esterne a famiglia – e famigli – declinarono».
Lo storico Franco Ama Amatori conclude che Cuccia non rallentò né accelerò la china negativa: «la accompagnò fra burberi rimproveri e un malcelato senso di superiorità, che senza dubbio non favorí il suo ruolo di leader del nucleo forte del capitalismo italiano».
A sua volta Giandomenico Piluso ha riassunto efficacemente il ruolo di Cuccia teso a difendere attraverso il «centauro Mediobanca» (mezzo pubblico, mezzo privato) il capitalismo privato minacciato dall’estensione della sfera di intervento della mano pubblica: “Dagli anni Settanta, Mediobanca divenne il perno autentico delle operazioni di puntellamento delle imprese in crisi e delle ristrutturazioni dei maggiori gruppi industriali. La «necessità» di Mediobanca emerse non solo nelle fasi di difficoltà delle imprese, ma, piú in generale, fu riconosciuta dai grandi gruppi privati quale chiave di volta dei sistemi di alleanza, delle coalizioni fondate sugli incroci azionari infragruppo, sui patti parasociali di sindacato”.
Non si può non citare Romano Prodi, che in qualità di presidente dell’IRI ebbe scontri notevoli con Cuccia: «L’uomo era di grandissima classe… Discutere con lui arricchiva. Era un destriero….Cuccia è stato «un motivo di ritardo dello sviluppo del Paese. […] Uno degli elementi di chiusura. Aveva nella mente un concetto elitista dei suoi protagonisti. […] E dunque il giudizio storico su Cuccia è di un uomo eccezionalmente dotato e integerrimo, ma che non ci ha preparato ad affrontare il futuro».
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