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Ambiente e rendimento, il credo di Quercus spiegato da Diego Biasi

Diego Biasi, creatore del fondo Quercus
Diego Biasi, creatore del fondo Quercus

Articolo apparso sul numero di settembre di Forbes Italia. Abbonati

Da Montebelluna a Londra, figlio di insegnanti, dopo la laurea, a cercare fortuna. In un ufficietto di bureau de change, in una via di Soho, a cambiare dollari, sterline, lire e marchi, sei giorni la settimana, da mezzogiorno a mezzanotte, per la clientela che passava in strada. Ma, con tenacia e capacità, Diego Biasi, una decina di anni dopo, ha scalato il successo e creato il fondo Quercus che investe in infrastrutture per energie rinnovabili, oggi uno dei primi player a livello europeo. La sua è una storia a marchio Forbes-doc, la storia di uno che ce l’ha fatta con sacrificio e la volontà di voler arrivare. È una storia pulita perché non capita spesso che chi lavora nella finanza scelga di farlo con lo scopo di soddisfare la sua clientela, ci mancherebbe, ma anche di dare una mano al pianeta. Dopo il bureau de change a Soho, Diego è andato a lavorare in Caboto, semplicemente e caparbiamente, presentando curricula su curricula e facendo decine di colloqui. Poi un passaggio in Commerzbank e alla fine, nel 2003, la scelta di mettersi in proprio fondando una sua società di consulenza che in seguito è diventata Quercus anche grazie all’incontro con Simone Borla, suo socio, scomparso ormai da alcuni anni, ma di cui Diego conserva un ricordo e una gratitudine che si riservano solo agli amici veri. Oggi, a 47 anni, è sposato e ha una bambina di pochi mesi, Olivia. La sua vita lavorativa si divide tra Monaco e Londra.

Per prima cosa mettiamo a fuoco: cos’è Quercus?

Quercus è un fondo indipendente specializzato in investimenti nelle rinnovabili. È stato il primo fondo paneuropeo per gli investitori istituzionali che nel 2010  ha iniziato a investire nelle rinnovabili concentrandosi nella costruzione di infrastrutture per la produzione di energia. È diventato uno dei primi player europei grazie agli investimenti fatti nelle varie tecnologie dall’eolico, al solare, alla biomassa in diversi paesi europei.

Chi sono gli investitori?

Fondi pensione, assicurazioni, banche e grandi family office: investitori istituzionali, insomma.

Perché l’avete chiamato così?

Volevamo un nome che ricordasse la longevità e la quercia evoca la figura di un albero molto stabile e duraturo nel tempo. Lo scegliemmo io e Simone.

Quali sono i vostri principi etici che vi hanno portato a fare questa scelta di investire sulle rinnovabili? Cosa ha fatto scattare la vostra scintilla verde?

I principi che governano la nostra proposta di investimento sono principi di rendimento, attenzione e sensibilità verso il pianeta. Quando siamo partiti nel 2009 eravamo in periodo storico di grande trasformazione del mercato perché era il periodo immediatamente successivo al crack di Lehman. C’era molta confusione sui mercati finanziari, molta volatilità, molto rischio, tanti avevano investito soldi specialmente in prodotti intangibili. Quindi volevamo proporre agli investitori qualcosa che fosse basato su un asset reale, tangibile che desse tranquillità nel lungo temine con poca volatilità e con un rendimento il più possibile interessante. Abbiamo trovato queste caratteristiche di tipo economico-finanziario nelle rinnovabili, ovviamente insieme all’impatto positivo che si può avere verso l’ambiente.

Investire in eolico, solare e biomasse vuol dire credere nel futuro o alla fine è solo un modo nuovo per fare affari?

È un modo per coniugare due cose: la prima è investire in maniera appropriata i soldi degli investitori per dare un rendimento con determinate caratteristiche, cioè investire in un asset reale che dia un flusso di cassa stabile a lungo termine per dieci, 15 anche 20 anni. La seconda è quella di fare un investimento con impatto positivo per l’ambiente che ci circonda. Non succede con tutti gli investimenti. Questi invece danno la possibilità di fare del bene al pianeta ma anche a chi investe.

Per investire in questi settori bisogna saper guardare più lontano rispetto ad altri?

Assolutamente. Ci vuole lungimiranza per capire dove va il mercato perché gli investimenti sono a lungo termine: basta pensare che un impianto solare 15 anni fa aveva una vita tecnica di 20 anni, oggi la sua vita tecnica è quasi raddoppiata. Quindi investiamo in infrastrutture che devono rimanere funzionanti in maniera appropriata nel tempo e in maniera più costante possibile per cui ci vuole molta esperienza e capacità per costruirle e altrettante capacità ed esperienza per manutenerle a lungo nel tempo.

Gli investimenti sostenibili sono più redditizi o rischiosi di quelli tradizionali?

Al momento, nelle condizioni economiche in cui si trova il pianeta sono più redditizi perché i tassi d’interesse sono negativi sia in euro che ormai anche in dollari e in sterline. I rendimenti del mercato finanziario in generale sono molto altalenanti e quindi particolarmente rischiosi perché la volatilità è aumentata molto specialmente negli ultimi mesi con il coronavirus. Tradizionalmente il mercato delle rinnovabili è un mercato poco rischioso. Insomma possiamo sintetizzare che sono più redditizi nel lungo termine e meno rischiosi.

Quale è stato il vostro primo investimento?

Abbiamo lanciato il primo fondo nel 2010 specializzato in investimenti solari in Italia e quando è partito abbiamo costruito un impianto fotovoltaico a Latina. All’epoca bisognava costruire le infrastrutture a fonte solare mentre oggi si possono comprare già operative, anche se nel mercato si sta preparando un forte interesse per nuove costruzioni. Quindi abbiamo acquisito un’autorizzazione per costruire un impianto e l’abbiamo realizzato. Era il nostro primo anno di lavoro e non avevamo ancora l’ufficio, non avevamo una segretaria e abbiamo condotto il primo anno di attività in due, io e il mio socio Simone Borla, che purtroppo in seguito è venuto a mancare. Lavoravamo da casa sua o dalla hall di un albergo anche 20 ore al giorno. Nel primo anno siamo riusciti a realizzare un impianto di 8 megawatt, abbastanza grande in quell’epoca, e poi abbiamo fatto un altro impianto, lo stesso anno, in Puglia di 5 megawatt.

Ricorda qualche episodio particolare di quel periodo?

Come no? Ricordo che avevamo la scadenza di attivazione del secondo impianto entro il 31 dicembre e a poche ore dalla mezzanotte siamo riusciti a collegarlo sotto una pioggia torrenziale. Sempre in quell’anno abbiamo fatto una joint venture con altri quattro player internazionali nel settore delle infrastrutture che stavano investendo nelle rinnovabili. Quella partnership è sfociata in uno dei più grossi portafogli di energia solare in Italia.

Quale è stata l’operazione che vi ha dato più soddisfazioni?

Sicuramente l’investimento che abbiamo fatto nel solare in Italia in compartecipazione con Swiss Life nel 2015, l’unica joint venture che hanno fatto al 50% con un altro partner. Siamo riusciti a trovare questo accordo con molta soddisfazione per poi sviluppare un investimento nel solare in Italia. Questa operazione ci ha dato molte soddisfazioni tra cui la possibilità di emettere il primo grosso green bond a livello europeo per 125 milioni di euro.

Ha funzionato?

Sì, molto bene. Quando lo abbiamo emesso abbiamo avuto molta richiesta. I tassi non erano elevatissimi, stavano scendendo e lo abbiamo emesso a un tasso molto basso per quel periodo storico, di poco meno del 3%. La domanda dal mercato è stata tre volte l’ammontare emesso, richiesto prevalentemente da assicurazioni internazionali come Axa, Aviva e Scorr, che lo hanno ancora oggi in portafoglio.

Voi avete lanciato cinque fondi: ognuno con una strategia diversa?

Abbiamo lanciato cinque fondi: i primi due quando c’era ancora Simone, poi altri tre. Il primo aveva una strategia d’investimento nel fotovoltaico italiano di nuova costruzione; il secondo si investiva in nuove costruzioni in Europa e su più tecnologie: fotovoltaico, eolico e biomassa; il terzo, simile al secondo, però diverso nella tipologia di investimento, non più greenfield ma brownfield, cioè investimenti in più tecnologie in Europa però in impianti esistenti; il quarto solare Italia su impianti esistenti e il quinto eolico Italia su impianti esistenti.

Perché tutta questa necessità di diversificazione?

Perché il mercato è cambiato: dal 2010 al 2015 si è visto un boom di nuove costruzioni in Europa, dopo il 2015, con il diminuire degli incentivi a livello europeo, gli investitori, prevalentemente quelli istituzionali, hanno cominciato a comperare asset già esistenti.

Ora questi fondi li avete ceduti.

Sì, li abbiamo ceduti lo scorso anno a Green Arrow, uno dei principali player di private equity in Italia, attraverso la più grossa transazione di un portafoglio paneuropeo a energia rinnovabile nel settore e adesso ci apprestiamo a lanciare un altro fondo che sarà pronto entro fine anno. Avrà una strategia Europa e sarà multi-technology.

L’anno scorso avete concluso la più grossa transazione in Europa nelle rinnovabili in cinque paesi diversi: Gran Bretagna, Spagna, Italia, Bulgaria e Romania. Quali difficoltà avete trovato nel costruire il portafoglio?

È stata un’esperienza particolarmente sfidante, durante la quale abbiamo avuto dei momenti difficili per le molte cose da fare, se non altro per il tessuto normativo che cambia da Paese a Paese anche se le dinamiche principali sono molto simili. Mettere assieme questi portafogli è stato il risultato di un lavoro molto intenso. Per anni ho fatto la spola tra Italia, Inghilterra e Paesi dell’est quasi settimanalmente perché dovevo lavorare con controparti diverse, in paesi diversi e su tecnologie diverse.

Non avrà mica fatto tutto da solo?

Da solo no, ma non avendo un team di 100 persone è stato un lavoro molto intenso. Però alcuni componenti giovani della mia squadra si sono dati molto da fare e anche grazie a loro sono riuscito a mettere assieme un portafoglio così diversificato in Europa e di così buona qualità. Il nostro team di investimento è composto di quattro/cinque persone per cui per investire oltre un miliardo di euro in Paesi così diversi abbiamo dovuto lavorare molto e studiare molto.

Ma forse il vostro principale deal è stato in Iran. Però con molte controversie. Cos’è successo? E soprattutto: ha rimpianti?

L’Iran è stato forse il traguardo che non ho raggiunto che però mi ha dato naturale soddisfazione. Dico che non ho raggiunto perché non son riuscito a materializzarlo, ovvero a costruire l’impianto, però i tre anni in cui non ci sono state le sanzioni americane, dalla fine dell’era Obama fino all’inizio dell’era Trump, sono stati entusiasmanti.

Ma perché proprio l’Iran?

Ho scoperto l’Iran quasi per caso: me l’ha fatto conoscere un amico. Ho cominciato ad andarci e mi è venuto in mente di costruire l’impianto fotovoltaico più grosso al mondo perché c’era spazio e perché pensavo di riuscire a convincere gli iraniani a farlo. E infatti, alla fine, sono riuscito a far capire al ministero dell’energia e al governo che fare l’impianto più grande del mondo nel centro dell’Iran avrebbe fatto parlare molto bene del Paese sulla scena internazionale. Ne avevano bisogno. Quindi si sono convinti che andava fatto.

Così, di punto in bianco?

Avevano un programma ambizioso di sviluppo per le energie rinnovabili e alla fine sono riuscito a ottenere uno dei quattro più importanti accordi commerciali che l’Iran ha fatto in quegli anni. Gli altri tre sono stati con Airbus, Boeing per gli aerei e Total per il petrolio. L’unico accordo per l’energia rinnovabile lo hanno fatto con Quercus e abbiamo iniziato a sviluppare la progettazione per costruire l’impianto. Purtroppo a causa delle sanzioni americane che si sono abbattute sul sistema a livello internazionale abbiamo dovuto abbandonare il progetto.

Sembra che sia stato comunque un periodo epico della sua vita.

Beh, direi di sì. Lavoravo a Londra, prendevo l’aereo il venerdì sera, viaggiavo di notte, arrivavo nelle prime ore della mattina a Teheran, lavoravo il sabato e la domenica perché lì il week-end è il giovedì e venerdì. La domenica sera prendevo il volo per Londra dove atterravo lunedì mattina e andavo direttamente in ufficio. Per tre anni questa è stata la mia vita. Dura, ma entusiasmante.

Nel vostro board ci sono personaggi del calibro di Giuseppe Garofano: che tipo di esperienza vi hanno portato?

Insieme a Giuseppe, che ha grande esperienza e lo considero anche un caro amico, ci sono anche un po’ tutti gli altri, personaggi del calibro di Ettore Gotti Tedeschi, Giulio Antonello, Gregory Barker, ex ministro dell’energia del governo Cameron per quattro anni, Shaun Kingsbury, che ha investito oltre 3 miliardi di sterline in pochi anni per conto del tesoro britannico, Christopher Knowles, capo delle infrastrutture della Bei. Loro sono stati con me fino all’anno scorso. Poi il loro mandato è scaduto con la cessione della piattaforma a ottobre, ma siamo ancora in contatto perché con i nuovi piani conto di continuare a collaborare con la maggior parte di loro se non con tutti. Mi hanno portato una grande esperienza a livello corporate, di governance, di come si gestisce in maniera più efficiente un’azienda ma anche esperienza e contatti a livello di mercato. Ora sono e siamo in attesa che si materializzi una nuova iniziativa per riprendere a lavorare fattivamente insieme.

La prossima idea in quale zona del mondo vi porterà?

La prossima iniziativa ci vedrà focalizzati ancora in Europa. Sarà un fondo europeo che investirà nel Vecchio Continente sempre nelle rinnovabili. In questo contesto lanceremo anche un progetto molto ambizioso che uscirà sul mercato dopo l’estate e partirà dall’Italia. Dopotutto ho sempre avuto grandi ambizioni, questo prima o poi aiuta.

 

Quercus Foundation

In aiuto dei bambini in memoria di un amico

Nel 2015 Diego Biasi ha fondato Quercus Fondation. È un’iniziativa personale non legata al fondo Quercus. “Il motivo per il quale porta lo stesso nome è perché ho voluto che rimanesse collegata a Simone (Borla il suo socio e amico scomparso nel 2014, ndr)”, spiega Biasi, “avendola fondata in suo onore dal momento che negli anni precedenti avevamo sempre pensato di fare qualcosa per il prossimo ma, a causa di molteplici impegni di lavoro, non ci eravamo mai riusciti”. La Fondazione Quercus si dedica a migliorare la vita dei bambini e dei giovani che vivono in condizioni di estrema povertà. Con un focus su salute, istruzione e infrastrutture, identifichiamo e investiamo in progetti che apportano il miglioramento più significativo alla vita dei bambini a lungo termine. Uno dei suoi principali interventi riguarda il Red Cross World Memorial Children Hospital di Cape Town, la capitale della Repubblica del Sud Africa, il più grande ospedale pediatrico dell’Africa Sub-Sahariana. È stato donato dalla Croce Rossa dopo la Seconda guerra mondiale. Attualmente viene gestito con fondi di donatori privati perché non viene sovvenzionato dal governo, se non per gli stipendi di alcuni medici. L’ospedale era molto decadente fino ad alcuni anni fa quando la Quercus Foundation ha deciso di rinnovare almeno una parte dell’ospedale ricostruendo da zero l’unità di terapia intensiva e il reparto neonatale, più altre aree per i dottori, donando la maggioranza dei fondi. Prima della costruzione, durata quasi due anni, Quercus Foundation ha donato i fondi per sostenere il reparto di tracheotomia infantile per due anni. “È curioso”, ricorda Biasi, “come il primo progetto della fondazione, scelto tra oltre 50 progetti scrutinati, era, senza volerlo, finalizzato ad aiutare giovani con problemi respiratori, dopo che Simone era mancato a causa di una grave malattia ai polmoni. Me ne sono reso conto dopo aver chiuso il progetto. A volte si pensa alle coincidenze, chissà se davvero lo sono?”.

 

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