Articolo apparso sul numero di Forbes di ottobre 2020. Abbonati
Davvero un ragazzo prodigio. Come può essere definito altrimenti un giovane che a 17 anni guida una piccola azienda e a 19 si mette in proprio con tre dipendenti? Senza poi contare quello che è riuscito a fare dopo. Fabrizio Di Amato, oggi a capo di Maire Tecnimont, ha iniziato molto presto nell’impiantistica.
“Da ragazzo durante l’estate andavo a fare esperienza in una piccola ditta di impiantistica”, racconta. “Aiutavo in ufficio, in cantiere, e nei rapporti con i fornitori, facevo un po’ di tutto. Poi negli anni successivi ho continuato a studiare (oggi è laureato in Scienze politiche presso la Sapienza di Roma e ad honorem in Ingegneria chimica al Politecnico di Milano, ndr) e lavorare nella stessa ditta. Avevo un’ottima predisposizione per seguire gli andamenti economici e finanziari, ma avevo anche una visione d’insieme che mi portava a guardare lontano. L’imprenditore presso cui lavoravo era un uomo di grande esperienza ed era bravo nel suo lavoro, ma aveva un approccio diverso dal mio che volevo crescere ed innovare, giustamente focalizzato sull’andamento dell’azienda. Avevo una visione che mi proiettava oltre la singola realtà imprenditoriale in cui lavoravo. Quando sono arrivato a 18 anni, mi ha proposto di gestire la sua azienda con 20 dipendenti”.
In sostanza già un’offerta da mini-manager…
Sì, anche se, per la verità, già a 17 anni gestivo quasi tutta l’azienda. Non potevo formalmente apporre firme, ma avevo la possibilità di coordinare tutte le attività. È stata una grande scuola. L’offerta mi lusingava, ma non corrispondeva alle mie aspettative, perché avevo un’idea un po’ diversa. Gli dissi che avrei aperto una mia azienda ma se voleva avrei lavorato per lui in subappalto. E così è stato”.
Quanti anni aveva?
Diciannove. Ho costituito una società di fatto, e da lì è cominciata la mia avventura. Quindi ho iniziato a lavorare prima per questo imprenditore, poi per altri, l’idea era sempre quella di guardare avanti. All’inizio avevo tre dipendenti, ma siamo subito cresciuti di mese in mese. Oggi siamo circa diecimila persone in 50 paesi e mi fa piacere ricordare che, dopo, 37 anni i tre dipendenti iniziali sono ancora con me.
Sapeva già dove sarebbe arrivato, lei che è un visionario?
Cercavo di guardare avanti investendo tutto quello che guadagnavo: a partire dal 1983 ho sempre reinvestito tutto, fin dall’inizio. Ho acquisito piccole società, perché ero sempre alla ricerca di competenze. Se vuoi crescere devi essere sempre concentrato sui tuoi obiettivi, avere chiara la direzione da seguire e allo stesso tempo cercare il meglio tra le competenze da valorizzare. E quelle che non hai disponibili internamente, devi saperle andare a prendere all’esterno. Come ho fatto quando abbiamo iniziato ad ampliare il nostro portafoglio tecnologico: bisogna iniziare a individuare tecnologie che siano adiacenti al proprio business. E lo stesso discorso vale quando inserisci persone nella tua azienda: devi sempre dare delle prospettive, tracciare un percorso, ma farlo in un’ottica meritocratica. Bisogna correre piano, andare avanti garantendo solidità nel lungo periodo.
Lei si sente più imprenditore o manager?
Imprenditore da sempre, senza dubbio. Ho fatto anche il manager operativo per tanti anni, poi dal 2013 l’azienda ha completato un processo di manageralizzazione con l’inserimento di un ceo. Conosco tanti imprenditori che sono stati determinanti per l’avvio dell’azienda, ma che oggi faticano a lasciare le deleghe operative. Quando eravamo piccoli facevo tutto io, ma più l’azienda cresce, più aumentano le complessità.
È importante individuare il momento giusto in cui è necessario saper delegare al manager?
Sì. Oggi l’azienda ha un ceo, Pierroberto Folgiero, con cui mi confronto quotidianamente e può contare su tanti manager capaci che contribuiscono alla gestione operativa. L’imprenditore, indipendentemente dalle deleghe, è presente per definizione. Deve sempre, in ogni caso, supportare il management nelle strategie grazie ad una catena decisionale molto corta. Va detto che all’inizio, quando l’azienda è piccola, non hai possibilità di attrarre competenze. Con la crescita dimensionale si è in grado di attrarre talenti e metterli al centro di un progetto imprenditoriale. Questo è ciò che è richiesto all’imprenditore: fare un passo in avanti, lasciando spazio ad altre figure manageriali.
Come si dice “quel ragazzo ne ha fatta di strada”. Ora siete un’azienda quotata.
Siamo un’azienda quotata con tutte le caratteristiche richieste a cominciare dalla trasparenza. La quotazione, per esempio per molte realtà all’estero, è una condizione di fiducia per il cliente. Se non ti conoscono ma sei quotato, aiuta. Però se dietro c’è anche una figura, quella dell’imprenditore, è ancora più facile instaurare rapporti. Nel settore della trasformazione delle risorse naturali, dove opera Maire Tecnimont, ci sono in gran parte public company, e gli stranieri non sono abituati a vedere che dietro c’è una figura imprenditoriale. Quando invece se ne rendono conto è un’ulteriore garanzia.
Avete fatto acquisizioni importanti.
Abbiamo acquisito aziende come Fiat Engineering e Tecnimont, erano parte di due grandi conglomerati, che facevano capo a holding. Adesso sono parti integranti dello stesso gruppo, una realtà grande, presente in tante geografie.
Fiat Engineering quando l’avete acquisita era sicuramente molto più grande di voi. Come ha fatto il topolino a mangiarsi il gatto?
Sì in effetti era molto più grande di noi: fatturava oltre quindici volte quanto fatturavamo noi. È stata l’operazione più difficile che abbia mai fatto. E anche molto coraggiosa. Avendo sempre tenuto distinte l’attività impiantistica dalle altre attività personali, ho avuto la possibilità di contribuire a questa importante acquisizione grazie ai proventi derivanti da dismissioni e altri redditi. In effetti è stato faticoso. Passare da 200 persone a 1.000 non era un’impresa facile. Però ci siamo riusciti.
Ma perché lo ha fatto?
Alla fine degli anni 90 era stata introdotta la legge che disciplinava le attività del general contracting e noi ci trovavamo nella condizione di essere troppo grandi per rientrare tra le piccole imprese che facevano certi tipi di lavori, ma troppo piccoli per competere nei grandi appalti. Le scelte erano due: o ridimensionarsi e specializzarsi per fare lavori di nicchia oppure dovevamo fare il salto.
Come ha individuato la Fiat Engineering?
Ho cominciato a fare un lavoro di scouting su tantissime aziende italiane nel settore del general contracting, ma incappavo sempre nello stesso problema: le aziende provenienti dal settore delle costruzioni avevano una situazione finanziaria il più delle volte precaria, mentre quelle provenienti dall’ingegneria mostravano performance più solide ed erano più internazionali. In quel momento cominciò a manifestarsi la crisi della Fiat e misero sul mercato le attività meno legate al core business dell’auto tra cui la Fiat Engineering. Mi sembrò l’occasione giusta ma non fu semplice. Era persino difficile farsi ricevere a Torino. Ricordo ancora che quando mi presentai trovai dei manager Fiat attorno a un tavolo. Quello che era a capotavola mi guardò e mi disse giustamente: “Prima di sedersi, lei ce li ha i soldi?”.
E ce li aveva?
Ho fatto una buona operazione di acquisition finance come si fa in questi casi. Avevo maturato buoni rapporti con le banche per il merito di credito acquisito negli anni: sapevano che ero un buon pagatore, come avevo dimostrato in tutta la mia storia imprenditoriale fin a quel momento. Ho infatti sempre creduto nella solidità patrimoniale delle holding che ritengo debbano essere ben capitalizzate con mezzi propri, in maniera da poter intervenire in sostegno delle società operative in caso di necessità, come mi è capitato di dover fare nel 2013.
Resta sempre il fatto che il compratore era più piccolo dell’obiettivo.
Infatti, tornando ai giorni dell’operazione dopo la due diligence che facemmo alla Fiat Engineering, il pool di banche finanziatrici fece una due diligence anche al nostro gruppo per capire se non solo dal punto di vista finanziario ma anche imprenditoriale e manageriale fossimo in grado di portare avanti l’operazione. All’epoca ho incontrato dei banchieri illuminati che, senza conoscermi personalmente, hanno valutato e apprezzato il progetto industriale di realizzare un grande player di ingegneria internazionale, il contributo all’operazione con capitali propri, nonché l’impegno come azionista a lungo termine. La negoziazione fu durissima e alla fine ci accordammo per una permanenza della Fiat al 30% con l’impegno che dopo tre anni sarebbero usciti definitivamente. Poi le cose sono andate meglio del previsto e in vista dell’acquisizione successiva abbiamo completato l’operazione già dopo un anno.
Quale è stato questo secondo step importante per la crescita del gruppo?
L’acquisizione di Tecnimont, un tempo divisione di ingegneria del gruppo Montedison. Era attiva nella realizzazione di grandi impianti industriali in tutto il mondo, soprattutto nel settore petrolchimico. Era erede della grande tradizione italiana di chimica industriale che risale a Giulio Natta, l’inventore del polipropilene. Il mio obiettivo era internazionalizzare, e Tecnimont, grazie alla grande competenza delle sue persone e alla sua presenza in tanti Paesi, era la piattaforma ideale che doveva rimanere italiana. Anche questa è stata un’acquisizione molto complessa, valutata come una delle più importanti operazioni di m&a in Italia.
Oggi cos’è Tecnimont?
È leader mondiale nella realizzazione di impianti di poliolefine (un segmento dell’industria petrolchimica, con una quota di mercato globale del 30%, ndr), e ha allargato il proprio business alla raffinazione, a tutta la catena gas e progressivamente alla transizione energetica e alla chimica verde.
Non c’è stata nei processi di acquisizione, come spesso accade, una colonizzazione del compratore sul comprato?
No, piuttosto una valorizzazione delle grandi competenze interne secondo un sistema meritocratico. Un metodo che ho sempre adottato in tutte le acquisizioni e integrazioni. Scommettendo sulle persone giuste. E ne abbiamo fatte altre, ma ha sempre funzionato.
C’erano altri concorrenti?
Sì. In particolare, dovemmo sconfiggere un’importante azienda giapponese. Anche la Confindustria di quei tempi, guidata da Luca Cordero di Montezemolo, ha giocato un ruolo importante. D’altra parte, il rischio era che il Paese perdesse competenze ingegneristiche di prim’ordine, e io volevo arrivare dove siamo adesso, i primi in Italia e sesti nel mondo nell’impiantistica per la trasformazione degli idrocarburi (secondo la classifica internazionale di Engineering News Record, ndr). Dopo Tecnimont ho provato a prendere contatti con Eni per acquisire Snamprogetti, ma dopo un approccio iniziale la loro strategia cambiò e decisero di non venderla più.
Comunque Tecnimont non è stata l’ultima acquisizione.
A quella di Tecnimont sono poi seguite altre importanti acquisizioni per ampliare la nostra offerta di tecnologia e di servizi.
Ma perché ha chiamato il suo gruppo Maire Tecnimont?
Al momento della creazione della capogruppo, che integrava le prime due grandi società acquisite, c’era da scegliere il nuovo nome. Incaricammo anche una società specializzata ma non ce ne piaceva nessuno. Alla fine, mi venne in mente Maire, che avevo già usato, e che è l’acronimo dei nomi dei miei due figli maggiori: Massimo e Irene. L’altra mia holding Glv ha il nome che riprende quello dei miei figli più piccoli: Giovanni, Ludovico e Vittoria.
Me nel vostro gruppo non c’è solo ingegneria e general contracting…
Infatti, siamo entrati nel business della chimica verde con NextChem, una nuova controllata creata sulla base di una società preesistente, nella quale sono confluite le competenze manageriali e tecnologiche verdi delle altre società del gruppo.
Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .
Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .