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Oltre il Pil: perché è importante l’indice Desi per misurare la digitalizzazione di un Paese

Articolo apparso sul numero di Forbes di ottobre 2020. Abbonati

Il lavoro, l’economia, la società e non solo: il digitale è oramai diventato una parte indissolubile delle nostre vita, e anche uno strumento con il quale alcuni Paesi riescono a garantire ai propri cittadini livelli di benessere, spesso proprio nel rapporto con le istituzioni, superiori alla media. A questo scopo nel 2015 la Commissione europea ha creato l’indice Desi (Indice di digitalizzazione dell’economia e della società), uno strumento con il quale viene monitorata la competitività digitale degli Stati membri. Il piazzamento dell’Italia all’interno di questo indice non è proprio dei migliori: nel 2020 è risultata quartultima, riuscendo a fare meglio soltanto di Romania, Grecia e Bulgaria. Come cominciare a invertire la tendenza e scalare posizioni? Niccolò Invidia, un parlamentare del Movimento 5 Stelle, ha avuto un’idea: una mozione per cercare di integrare l’indice nel prossimo Documento di economia e finanza (Def). L’indice Desi è strutturato su cinque fattori: la connettività, il capitale umano, l’uso di servizi web, l’integrazione con le tecnologie digitali e i servizi pubblici digitali. D’altra parte, il livello di accesso a internet tramite banda larga e ultra larga, il grado di competenze digitali, il numero di attività che vengono svolte in via informatica e digitale, in sintesi il livello di innovazione tecnologica, costituiscono un indicatore indispensabile per valutare le potenzialità di sviluppo e di crescita economica di un Paese, soprattutto durante la quarta rivoluzione industriale.

Non è la prima volta che alla stessa maniera si cerca di introdurre un indice con una mozione: nel 2016 ci riuscì l’attuale ministro per gli Affari regionali e le autonomie Boccia con l’indice Bes (Indice sul benessere equo e sostenibile), che è entrato a far parte del Bilancio dello Stato. “Il Desi non è un indice perfetto. Premesso tuttavia l’elemento di arbitrarietà di ogni ranking, è palese che l’Italia sia in una grossa difficoltà dal punto di vista dell’innovazione nell’economia e nella società”, spiega Invidia. “Questo strumento non vuole sostituirsi al Pil, o agli strumenti economici, ma vuole essere uno strumento di soft power. Se diventasse un benchmark adottato ufficialmente dallo Stato nella prossima Legge di Bilancio, avremmo uno strumento di pressione verso le istituzioni: potrebbe nascere una volontà politica, una voglia di migliorare e un’attenzione ai temi del digitale molto maggiore rispetto a quella attuale”.

L’introduzione dell’indice Desi nel Def rischia di essere un’arma a doppio taglio: perché una multinazionale dovrebbe decidere di investire in un Paese quartultimo in Europa per quanto riguarda l’economia digitale? L’obiettivo della mozione non è quello di cambiare la reputation e l’opinione pubblica degli imprenditori o delle società internazionali sul nostro Paese. “L’attenzione che noi abbiamo verso questo tema può cambiare solo se viene percepito come emergenza. È necessaria una pressione”, specifica. “Se non c’è una misurazione, viene fuori la tendenza a procrastinare le cose. Con una misura accanto, si ha una voglia diversa di cambiare le cose. Non è nulla di ambizioso. È uno strumento comunicativo, simbolico e di pressione”.

Tra i fattori che gravano sulla posizione dell’Italia non proprio brillante nell’indice Desi, c’è l’apparato altamente burocratizzato che caratterizza il decision making del nostro Paese: la lentezza e la difficoltà che spesso riguardano anche il lato parlamentare si riverberano sulla società. “Abbiamo un gap immenso in ogni settore. Il settore dell’education è quello in cui occorre investire di più. Scontiamo un approccio troppo tradizionale”, ammette l’onorevole.

Negli ultimi tempi alcuni passi in avanti sono stati compiuti. C’è un dipartimento per la trasformazione digitale che sta portando avanti dei grandi risultati nel campo della pubblica amministrazione: “Sono la punta di diamante. E ci sono delle ottime risposte anche dal Mise. Ho avuto particolare interesse per lo stanziamento di 500 milioni per il Fondo di Trasferimento Tecnologico nel decreto Rilancio”.

Un capitolo a parte merita la partita del Recovery Fund. L’attenzione per la parte di innovazione e ammodernamento del Paese deve essere un dogma: “Il Recovery Fund è il treno che passa solo una volta nella vita di un Paese. Evidentemente deve avere come direzione una visione sulla quale non possiamo patteggiare. Sono diverse le realtà e i ministeri coinvolti, ognuno con i propri interessi: se decidiamo di puntare sull’innovazione dobbiamo essere severi, anche nell’assegnazione delle risorse”. Le idee di Invidia per rendere l’Italia avanguardia dell’innovazione digitale non finiscono qui. Una delle proposte più importanti riguarda l’istituzione in parlamento di una commissione parlamentare fissa dedicata all’innovazione, paragonabile alle commissioni che esistono per l’agricoltura, il bilancio, i trasporti e la finanza. “Finalmente avremmo dei parlamentari che si occupano solo di quello che si occupano sempre di questo tema. L’innovazione finirebbe di essere cenerentola, ma avrebbe un luogo fisso in cui poter vivere ed essere nobilitata”.

L’innovazione digitale non può che riguardare anche la sanità. Purtroppo, anche in questo settore l’Italia non può dire di essere al passo con i tempi. Invidia ha proposto un emendamento per creare una sorta di chief technology officer per ogni azienda sanitaria. Se oggi il fascicolo sanitario nazionale e la cartella clinica digitale per effettuare analisti predittive sembrano fantascienza, grazie a delle linee guida nazionali che facilitino l’interoperabilità tra le regioni potrebbero diventare realtà: “In Italia ci sono 200 aziende sanitarie. L’idea è quella di avere un cto, un manager dell’innovazione, per ognuna di queste e che sulla base di linee guida dettate dal ministero dell’Innovazione e da quello della Sanità possano creare un sistema nazionale di sanità digitale. Con un piccolo investimento, si può generare un risparmio per lo stato e creare un nuovo settore dell’economia”.

 

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