La fila è lunga. Le persone che la compongono sono rigorosamente distanziate e con il volto coperto a metà da una mascherina. In un’attesa religiosa aspettano il loro turno. C’è chi, soprattutto nei primi giorni, è stato costretto a tornare indietro, causa sold out dei prodotti. Lorenzo Cioli e Stefano Ferraro hanno aperto Loste da poco più di un mese, quando le zone gialle sono sparite, ma il successo di critica e pubblico è oramai conclamato: questo bar di nuova generazione, capace di spaziare da dolci ispirati alla tradizione scandinava – i due si sono conosciuti al famoso Noma di Copenaghen – fino ai vini naturali, è l’emblema di una Milano forse un po’ più vuota, forse triste e ferita, ma ancora terreno fertile di nuove idee.
“Abbiamo scelto Milano due anni fa: ci sembrava la città più dinamica e internazionale d’Italia. Nonostante la pandemia, la scelta ci ha ripagato, i milanesi sono stati reattivi. Hanno ancora fame di provare cose nuove. Ci abbiamo pensato un po’ ma settembre ci siamo detti che era il momento giusto”, raccontano, confessando anche di apprezzare una città meno frenetica del solito. E così, mentre Stefano sforna, tra le altre cose, Pain au chocolat e Cinnamon rolls, Lorenzo spadroneggia al banco: “Cerchiamo di avere un minimo di rapporto anche solo con l’asporto. E proprio per questo motivo abbiamo deciso di rinunciare al delivery”. I due hanno messo il primo mattone di un progetto che nei prossimi mesi, compatibilmente con le restrizioni, offrirà un servizio sempre più completo, con la possibilità di fare pranzo e di bere vini naturali mangiando qualcosa anche dopo le 18.00.
Per un locale che apre e inizia a crescere in piena zona rossa, ce n’è un altro che si deve reinventare. Mentre la proposta informale di Loste si sposa bene con l’asporto, le cose diventano più complicate quando è un progetto di fine dining come Bu:r a dover trovare una soluzione. Eugenio Boer e Carlotta Perrilli, rispettivamente chef e maître del ristorante di Via Mercalli, hanno messo a punto un servizio di delivery: non la trasposizione del ristorante, ma una gastronomia parallela di piatti in parte pronti, in parte da rigenerare a casa. ”Il delivery è stata un’alternativa di business: abbiamo utilizzato stesso team, stessa cucina e location per scoprire nuove competenze. E’ stato salvifico: siamo riusciti a pagare puntualmente tutte le spese e a non licenziare nessuno. In sostanza, a dare una continuità alla nostra impresa”, spiegano. “In futuro, vogliamo concentrarci sul fine dining, ma anche il delivery potrebbe rimanere”.
Adattarsi sì, ma non senza conseguenze. Yoji Tokuyoshi ha fatto una scelta ancora più radicale: trasformare il suo raffinato Ristorante Tokuyoshi, che da diversi anni vantava una stella Michelin, nella Bentoteca, un posto dove trovare una cucina giapponese più semplice abbinata ai vini naturali. Una proposta adatta sia alla ristorazione classica che ai servizi di asporto e delivery, ma che non è piaciuta ai critici della Michelin. “Abbiamo perso la stella e non è mai bello. Nella Guida Michelin 2021 siamo stati classificati come ristorante che ha perso la stella causa ‘cambio formula’ ed effettivamente ci rendiamo conto che è giusto così. La scelta di cambiare formula era una scelta presa non solo per volontà ma anche, e soprattutto, per sopravvivere. Ci sono state un sacco di difficoltà, cambi di programma, ostacoli, ore infinite a pensare e ripensare se fosse veramente una buona strada da prendere”, dice lo chef. “Ma se non ci fossimo trasformati in Bentoteca sicuramente non avrei potuto tenere tutti i miei dipendenti e probabilmente la riapertura del Ristorante Tokuyoshi sarebbe più lontana rispetto a quello che ci sembra ora”. D’altronde, grazie a un formato più pop, la Bentoteca è oggi sulla bocca di tutti. Tutti nel vero senso della parola perché il delivery – o Bento Tour come sono chiamati – non si sono limitati a Milano, ma hanno attraversato l’Italia, da Aosta a Firenze, senza dimenticare Treviso e Padova: “Ci siamo fatti conoscere da tante persone. La Bentoteca oggi è una cosa popolare, che va oltre al ristorante come business e questo mi fa piacere”, racconta Yoji Tokuyoshi. “Nel futuro mi piacerebbe mantenere questo spirito, con aperture in altre città, pop-up o tour”.
I pareri sul delivery non sono però unanimi. Aveva fatto discutere qualche settimana fa l’intervista di Vivana Varese al Corriere della Sera, chef di Viva, ristorante ospitato all’interno di Eataly Smeraldo, nella quale affermava che il delivery “mortificava” il suo lavoro. “La mia posizione non è così dura o giudicante. Sapevo che bisognava arrivare nelle case e io ho stessa ho ideato un e-commerce di prodotti come creme e marmellate che ha avuto successo”, spiega. “Detto questo, il mio cibo nella scatoletta non volevo più vederlo e metterlo. Star chiusa e avere le persone in casse integrazione mi conveniva rispetto a fare delivery. Non volevo aggiungere debiti”. In un Milano che appare sempre più vuota, Viviana Varese crede che la vera ripartenza per la città potrebbe esserci a settembre e nel breve periodo valuta l’apertura di una località estiva: “La mia clientela ha spesso una casa vacanza. Difficilmente passeranno l’estate in città. L’anno scorso ho aperto sul Lago di Garda, quest’anno sto cercando un accordo con una nuova località”.
Più o meno sullo stessa scia si colloca il pensiero di Diego Rossi, chef e socio insieme a Pietro Cairoli di Trippa, la trattoria milanese dove è impossibile prenotare. “La nostra cucina è estemporanea: fare un delivery non sarebbe stato come mangiare da Trippa. Siamo chiusi da ottobre 2020. Abbiamo rinunciato anche alle aperture a singhiozzo a pranzo: avremmo perso soldi”, dice. “Grazie a un lavoro oculato di risparmi in questi anni, abbiamo messo da parte dei soldi siamo riusciti a stare in piedi, all’inizio anticipando anche la cassa integrazione”. Lo chef continua però a essere fiducioso nel futuro tanto da aver deciso di investire in un progetto, insieme ad altri due soci. Si chiamerà Osteria alla Concorrenza e aprirà nei prossimi giorni, vendendo vini e prodotti da asporto, in Porta Venezia: “Le persone andranno sempre di più a colpo sicuro, alla ricerca di professionisti veri. Ci sarà meno spazio per i locali improvvisati. Un altro trend sarà quello della sostenibilità”, conclude.
Una voce arriva anche dal mondo del beverage ed è quella di Dom Carella, cofondatore di Carico, il ‘casual risto cocktail’ di Via Savona, che ha aperto a febbraio poco prima dell’arrivo della pandemia in Italia. “Avevamo un mese di vita. Non abbiamo mai conosciuto il nostro respiro. Nonostante questo, siamo molto soddisfatti del riscontro che abbiamo avuto”, afferma il patron del locale, che durante la scorsa estate è diventato un punto di riferimento per tanti chef che dopo il servizio si ritrovano proprio lì per un cocktail da abbinare a dei piattini.
L’offerta di cocktail da accompagnare a cibo gourmet pensata principalmente per la night life, sebbene anche il servizio a pranzo fosse nei progetti, si adatta poco al delivery: hanno sperimentato con un progetto di e-commerce senza successo. “Aspettiamo che si torni a una pseudonormalità, che ci dia modo di poter far business. Credo che la vera normalità sia lontana. Probabilmente dovremo rispettare delle restrizioni, ma ciò ci permetterà comunque di trovare una sostenibilità, magari anche grazie a un ampio orario di azione”, confessa. Per il futuro, spera di poter inaugurare un progetto side di Carico, che prevede una sala esperienziale dove cibo e cocktail si fonderanno con musica, video e altre sensazioni: “Tutti hanno voglia di uscire e divertirsi. Solo rispettando le regole oggi, potremo portare a casa questo obiettivo”, conclude.
Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .
Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .