La carenza di chip continua a tormentare il settore dell’automotive. Tanto che anche lo stabilimento abruzzese di Chieti della Sevel si è visto costretto a fermare la produzione per una settimana. Il motivo è la mancanza di componenti elettronici. La Società europea veicoli leggeri, del gruppo Stellantis, è famosa per essere l’azienda che assembla il Fiat Ducato. Come riporta Repubblica, per tutti i 5.670 addetti è scattata una settimana di cassa integrazione dal 30 agosto al 5 settembre. Non è possibile prevedere se ci saranno altri stop.
Devono essere settimane dure per il settore dell’auto se perfino la Toyota, gigante giapponese dell’automobile, ha dovuto tagliare la produzione del 40% rispetto alle previsioni. Ed è passata da una previsione di 900mila pezzi prodotti a 540mila. Una decisione analoga è stata presa anche dalla Volkswagen, la quale ha annunciato il taglio della produzione del suo impianto di Wolfsburg.
I motivi della carenza di microchip
I microchip sono i mattoncini su cui basano il loro funzionamento molti dispositivi elettronici di uso quotidiano. Peraltro sono composti da materiali semiconduttori, ormai sempre più difficili da reperire. In seguito alla pandemia, a livello globale è aumentata enormemente la domanda di microchip. La digitalizzazione in questo senso ha dato una grossa spinta al mercato. Basti pensare che il leader europeo nella produzione di microchip, l’azienda italo-francese STMicroelectronics, solo nel primo semestre del 2021 ha registrato un fatturato di oltre 6 miliardi di dollari (+39,1% rispetto all’anno precedente). E come scrive Ispi, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, l’intero settore vale 440 miliardi di dollari di fatturato annuo a livello globale, ed è in costante crescita (+7,7% previsto nel 2021).
Sono poi da considerare le motivazioni geopolitiche. L’Europa, infatti, non produce abbastanza microchip per fare fronte al suo fabbisogno e deve importarli, laddove i Paesi leader di mercato sono Stati Uniti, Cina, Corea del Sud e Taiwan. Le tensioni commerciali – e le conseguenti restrizioni reciproche alle esportazioni – tra Stati Uniti e Cina stanno provocando problemi nelle forniture lungo la filiera produttiva.
Un altro aspetto che incide sui ritardi è l’emergenza coronavirus, che ancora imperversa in alcuni paesi emergenti. “I colli di bottiglia logistici, causati da interruzioni nei porti, nelle linee di navigazione e nei trasporti interni, hanno allungato i tempi di consegna e hanno ulteriormente peggiorato le carenze in alcune regioni”, scrive in un report Carol Liao, economista per la Cina di Pimco. “Di conseguenza, le scorte si sono esaurite rapidamente e l’inflazione è aumentata negli Stati Uniti e in altri mercati”.
Le prospettive future
“Ci aspettiamo che i colli di bottiglia dell’offerta si attenuino verso la fine dell’anno”, aggiunge Liao, “quando la produzione aumenterà e la congestione delle spedizioni si ridurrà, la domanda di beni nei mercati sviluppati diminuirà e i consumatori delle economie avanzate sposteranno la spesa verso i servizi”.
Julie Dickinson, equity investment director di Capital Group, scrive che “i microchip potrebbero diventare il nuovo petrolio”. Questo perché “sono usati in una vasta gamma di prodotti, da smartphone e server ad automobili, televisori e persino lavatrici. Secondo varie stime, le vendite globali di semiconduttori potrebbero raddoppiare da circa 450 miliardi di dollari di oggi a quasi 1.000 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni”. Ed è per questo, forse, che i più grandi produttori di chip del mondo stanno spendendo miliardi per soddisfare l’aumento della domanda.
Affrancarsi dalla dipendenza degli altri
In risposta alla carenza di chip in tutto il mondo, infatti, l’amministrazione Biden ha promesso di spendere 50 miliardi di dollari per la ricerca e lo sviluppo nel campo dei semiconduttori al fine di riportare un po’ di produzione di chip negli Stati Uniti.
Anche la Cina punta ad arrivare a produrre internamente il 70% del suo fabbisogno di chip, almeno secondo quanto dichiara nel piano industriale Made in China 2025.
A dicembre 2020, anche 17 Stati membri dell’Ue hanno firmato una dichiarazione congiunta che punta a raccogliere corposi investimenti per ridurre il ritardo dell’Europa in questo campo. I fondi dovranno arrivare da bilancio Ue, recovery fund e settore privato per diminuire la dipendenza del continente dalle esportazioni estere. È ancora da capire, però, se non sia già troppo tardi per ridurre il ritardo accumulato.
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