Consumi o scegli? è lo slogan della campagna di comunicazione di Altromercato, la principale realtà di commercio equo e solidale in Italia. La campagna ha vinto il Premio Aretè nella categoria impresa e l’Agorà d’Oro assegnato dal Club Dirigenti Marketing. Successi che fanno riflettere sulle nuove forme del racconto aziendale, sulla svolta comunicativa in termini di contenuti e tono di voce. Ne parliamo con Paolo Iabichino, in arte Iabicus, mente creativa della campagna di Altromercato. Spicca tra gli scrittori pubblicitari di punta, è fondatore dell’Osservatorio Civic Brands con Ipsos Italia, maestro alla Scuola Holden, e fino al 2018 è stato ai vertici di Wpp come direttore creativo del Gruppo Ogilvy, una delle più importanti agenzie pubblicitarie.
Sulla confezione di caffè di Altromercato si legge: “Esiste un caffè che non è amaro per chi lavora?”. Il prodotto parla al consumatore, indotto a scegliere da che parte stare. Un messaggio di grande forza.
Altromercato mi ha chiamato per riposizionarsi, perché non riusciva più a sostenere la propria verità, ormai coperta dal frastuono su quegli stessi temi. Non si trattava di dire qualcosa di più o qualcosa di nuovo. Andava fatta un’operazione di registro: Altromercato doveva dire le cose che aveva sempre detto, ma con un piglio più deciso, e responsabilizzando, allo stesso tempo, il consumatore.
Oggi quanti consumatori prima scelgono e solo dopo consumano? Possiamo parlare di una svolta, in tal senso, nell’ultimo decennio?
Il confronto è positivo. C’è una spinta accelerata anche dalla pandemia, che ha risvegliato la coscienza sui temi ambientali e dei consumi. È come se avessimo toccato il punto di non ritorno. Tutti abbiamo cominciato a riflettere sulle filiere, sul nostro posto in questo mondo in relazione agli altri. Quando l’unica cosa che resta sono i beni essenziali, inizi a riflettere su questi. Mi piace parlare di csr (consumer social responsibility). Al consumatore va data una patente civica per cambiare le cose. Esempio: se compri Altromercato stai in una certa parte del mondo, se invece compri compulsivamente l’altro caffè sostenibile allora sei correo. Il consumatore deve essere però allenato.
Dove e come allenarsi a un consumo responsabile?
La moda si sta muovendo in questa direzione, e lo sta facendo molto bene, anche con la consapevolezza che è una delle industrie più inquinanti.
Allude, fra l’altro, al passaporto digitale introdotto da Federico Marchetti?
Sicuramente quella di Marchetti è una delle azioni di maggiore impatto alla quale i grandi brand stanno aderendo. Oggi un numero crescente di persone sta andando verso l’educazione al consumo, ma tantissimo deve essere fatto per dare strumenti, così da scegliere con maggiore consapevolezza.
In tal senso la tecnologia aiuta.
Purché il QR code di turno venga usato per raccontare le filiere, le tracciabilità, i racconti di prodotto. Penso a quanto fa GOODMood, una realtà che sta mettendo l’audio al servizio del racconto di filiera attraverso il packaging. La tecnologia permette di costruire un immaginario nuovo per il prodotto, passando attraverso lo storytelling, il racconto di verità e di autenticità. Se non è così, il consumatore è il primo a prendere le distanze.
Oggi come si fa comunicazione d’impresa?
Anzitutto si parte dalla comprensione delle tensioni che attraversano il mondo. Sostenibilità ambientale, differenze di genere e altre disuguaglianze, violenza e razzismo sono problematiche che interessano fette sempre più importanti della popolazione e che vanno affrontate anche nell’imprenditorialità. Comunicare la propria azienda vuol dire, prima di tutto, saper comprendere il contesto in cui il messaggio sarà letto e poi schierarsi con coraggio. Chiunque decida di non prendere posizione deve essere disposto a pagarne le conseguenze. Oggi non ci si può più dividere fra profitto e solidarietà: le due istanze devono fondersi. La Generazione Z, per esempio, non compra più secondo le tradizionali leggi di mercato. Questa generazione fa di ogni acquisto una scelta civica.
Un tempo le agenzie creative dividevano i clienti fra chi portava profitto e chi si occupava di solidarietà.
Per anni la comunicazione è rimasta bloccata nella trappola di una polarizzazione che ormai sta convergendo verso una politica comune. Lo insegna il padre del marketing moderno, Philp Kotler, che nel suo Brand Activism riscriveva la teoria delle quattro P e alle parole “product”, “price”, “placement” e “promotion” aggiungeva la P di “purpose”.
Nel racconto aziendale di oggi, quali sono i termini che entrano e quelli che escono? Come cambia il vocabolario?
Per esempio, “pubblico” sostituisce “target”. Il pubblico applaude, il target è un bersaglio da colpire.
Non trova che tanta pubblicità della televisione sia desueta, ferma al treno a vapore?
Il nostro è un Paese in cui la televisione non è riuscita ancora a rinnovare il proprio linguaggio, non solo quello pubblicitario. Non vediamo un format intelligente da qualche decennio, e la pubblicità va di conseguenza: non riesce a rinnovare le proprie grammatiche perché i contenitori sono anacronistici, funzionano su un certo pubblico. Gli interlocutori cui stiamo guardando non pascolano nei palinsesti della tv. Io osservo quello che succede sui podcast, all’interno delle piattaforme, nella produzione di cortometraggi di brand che mettono in scena valori. C’è grande contaminazione fra cinema e pubblicità in questo momento, un processo avviato dalla moda in tempi non sospetti e ora preso a prestito da altri settori.
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