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Da Amazon a Apple, fino a Ikea: quasi tutte le multinazionali usano l’ecologismo solo ai fini di marketing

L’accordo di Parigi sul clima è categorico: le emissioni di gas serra vanno ridotte velocemente, in tutti i Paesi e in tutti i settori. Per raggiungere questo traguardo, entro il 2030 il rilascio di anidride carbonica nell’atmosfera deve diminuire del 45% rispetto al livello del 2010. Solo così sarà possibile contenere il surriscaldamento climatico al di sotto della soglia di sicurezza di 1,5°. L’obiettivo al 2050 è, invece, zero emissioni nette: la produzione di anidride carbonica deve  essere compensata da apposite misure di riduzione, sia naturali che artificiali.

Gli impegni presi a Parigi, in vigore dal 2020, sono stati poi confermati dalla Cop 26, la conferenza dell’Onu sul clima che si è tenuta a Glasgow nel novembre dell’anno scorso. Seppure accusati di essere troppo timidi, gli accordi di Glasgow sono, in realtà, molto ambiziosi. Infatti, per essere rispettati, hanno bisogno della collaborazione di numerosi player mondiali e dello sforzo congiunto di aziende e governi. Uno sforzo che è stato sollecitato soprattutto dal basso.

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Sono stati infatti i consumatori, insieme a  movimenti come Friday for future, a chiedere alle aziende di fare di più contro i cambiamenti climatici. Insomma, negli ultimi anni, le pressioni sulle imprese per la decarbonizzazione sono aumentate. E sotto l’impulso dell’opinione pubblica, molte aziende hanno annunciato di ridurre, o addirittura di azzerare, la produzione di anidride carbonica. A gennaio 2022, oltre tremila società hanno sottoscritto la Convenzione delle nazioni unite sui cambiamenti climatici, il doppio rispetto all’anno prima. 

L’ecologismo di facciata a fini di marketing

Quasi tutte le multinazionali, poi, hanno pubblicato documenti nei quali spiegano cosa intendono fare per ridurre le emissioni di gas serra.  Spesso, però, la distanza tra i proclami e la realtà è molto grande. Secondo uno studio del New Climate Institute, un’organizzazione tedesca che promuove azioni contro il surriscaldamento globale, molte aziende non fanno abbastanza per realizzare gli obiettivi sul clima che si sono date.

Insomma, nonostante gli annunci solenni gli impegni rimangono sulla carta. Si tratta, in molti casi, di Greenwashing: un ecologismo di facciata a fini di marketing. In pratica, le società cercano di darsi una patina green per compiacere i propri clienti, quando invece fanno poco o nulla per limitare gli effetti negativi sull’ambiente delle loro produzioni.  

Obiettivi difficilmente raggiungibili

I ricercatori tedeschi hanno analizzato i piani di 25 multinazionali che si sono impegnate ad azzerare le loro emissioni. Le società valutate sono di primo piano: i loro ricavi sommati ammontano a oltre 3mila miliardi di dollari, il 10% del fatturato delle 500 imprese più grandi del mondo. Ma soprattutto sono aziende che inquinano parecchio, le cui emissioni di diossido di carbonio nel 2019 rappresentavano il 5% delle emissioni globali.

Le conclusioni dello studio sono impietose: in media la riduzione di gas serra che si può ragionevolmente ottenere è soltanto del 40%. Certo, sono risultati che, se conseguiti, sarebbero significativi ma che purtroppo non sono sufficienti a prevenire il riscaldamento del pianeta. Inoltre, gran parte degli obiettivi verrà realizzata oltre la scadenza che le stesse imprese hanno indicato nei loro documenti. 

Tra le big si salva solo Maersk

Quello che emerge dallo studio è un quadro piuttosto sconfortante, anche alla luce del fatto che nessuna società ha ottenuto dai ricercatori il punteggio massimo, definito “di alta integrità”. Soltanto la danese Maersk è riuscita a rientrare nel secondo livello, quello chiamato di “ragionevole integrità”, seguita a distanza da Apple, Sony e Vodafone. Le restanti 21 compagnie esaminate, invece, ricadono sotto le categorie di “bassa o molto bassa integrità”. Tradotto significa che i piani presentati dalla maggior parte delle società sono insufficienti per raggiungere il target di zero emissioni che le stesse società si sono date.

Come scrivono i ricercatori “la rapida accelerazione delle promesse fatte dalle compagnie sul clima, insieme alla notevole diversità degli approcci scelti, rende più difficile che mai distinguere tra una reale leadership climatica e un greenwashing senza fondamento”. Inoltre, le misure presentate dalle aziende non sembrano avere effetti nel breve periodo. Infatti, l’87% del totale dell’inquinamento generato deriva dalle emissioni indirette legate alla vendita e all’acquisto da parte delle aziende di beni e servizi. E soltanto otto società sulle 25 studiate hanno presentato dei progetti dettagliati per ridurre questo tipo di emissioni.

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I due terzi delle compagnie punta (solo) sulla riforestazione

C’è, poi, un’ambiguità negli stessi documenti. I piani che dichiarano di “neutralizzare” o “bilanciare” le emissioni sono, secondo il  New Climate Institute, “controversi”. Leggendo i documenti di 19 società, infatti, si capisce che il raggiungimento degli obiettivi si basa fondamentalmente su misure di compensazione. Per essere considerate carbon free, molte imprese prevedono di investire importanti risorse sull’eliminazione del diossido di carbonio rilasciato. Le strategie adottate si basano soprattutto sul rimboschimento e sullo sviluppo di sistemi naturali di cattura del carbonio, necessari a bilanciare le emissioni prodotte. Si pensa così di limitare l’impatto sul clima: tanta è la produzione di anidride carbonica quanta la sua eliminazione dall’atmosfera.

Tuttavia, secondo lo studio, questo approccio è inadeguato. “Almeno i due terzi delle compagnie” scrivono i ricercatori del New Climate Institute, “si serve della rimozione (dei gas, ndr) attraverso le foreste o altre attività biologiche, che possono essere facilmente vanificate, ad esempio attraverso un incendio”. Inoltre, la riduzione delle emissioni e l’aumento della cattura di anidride carbonica non sono obiettivi alternativi: gli impegni sul clima richiedono che siano portati avanti insieme. 

Pretese di carbon neutrality ingannevoli

Ma a suscitare preoccupazione nei ricercatori tedeschi è stata la poca trasparenza delle società esaminate. I piani risultano lacunosi con “significativi problemi di credibilità” negli obiettivi di carbon neutrality. Al colosso farmaceutico Novartis, ad esempio, viene rimproverata la decisione di compensare il 65% delle sue emissioni con metodi biologici di cattura del carbone. La spiegazione dei ricercatori è che “le pretese di carbon neutrality basate in modo esteso sulla compensazione possono essere ingannevoli e la loro correttezza è controversa”. 

Come detto, il problema riguarda anche le date inserite nei documenti. GlaxoSmithKline, un’altra azienda farmaceutica, ha stabilito un ambizioso percorso che la porterà a zero emissioni nel 2030. Il punto è che, secondo lo stesso piano approvato dalla società, più di un terzo delle riduzioni programmate sarà realizzato nell’ultimo anno e metà negli ultimi due, con seri dubbi circa la fattibilità di un simile progetto. Evan Berland, portavoce di GlaxoSmithKline, ha dichiarato al Washington Post che il ritardo sulla tabella di marcia è dovuto alla ritardata commercializzazione di un nuovo inalatore che dovrebbe ridurre l’impatto inquinante dell’azienda del 34%. 

A essere promosso quasi a pieni voti dai ricercatori è soltanto il gruppo danese Maersk, attivo nel trasporto marittimo e nella cantieristica navale. Il mese scorso la compagnia ha anticipato il suo percorso verso il target zero emissioni al 2040. Maersk, inoltre, ha promesso di tagliare del 70% la produzione di gas serra dei suoi scali marittimi. Del resto gli impegni del gruppo danese sono concreti: già nel 2021 aveva ordinato la costruzione di 8 navi a impatto zero. 

Ikea e l’immagazzinamento della CO2 nel sottosuolo che non convince

Lo studio si concentra poi su Ikea, la multinazinale svedese leader nel commercio al dettaglio di mobili. Nel documento Ikea sustainability report, l’azienda infatti si impegna a essere carbon positive entro il 2030, e cioè a bilanciare le sue emissioni catturando i gas serra nell’atmosfera. Nello specifico Ikea dichiara di aumentare l’uso di materiali riciclati e di recuperare prodotti danneggiati o difettosi. Oltre a questo, la multinazionale svedese prevede di spendere importanti risorse nello sviluppo di sistemi per catturare l’anidride carbonica, come la riforestazione e l’immagazzinamento nel suolo.  “Attraverso l’economia circolare” c’è scritto nel report dell’Ikea, “ci assicuriamo che il carbonio rimanga all’interno dei nostri prodotti e nei materiali più a lungo”. 

Una strada che, però, non convince i ricercatori tedeschi. Secondo loro, infatti, si tratterebbe soltanto di una soluzione temporanea. “Le tecniche di cattura e sequestro del carbonio possono essere considerate una neutralizzazione credibile delle emissioni di una compagnia solo se lo stoccaggio è di lunga durata”, pari ad almeno cento anni. Invece, prosegue lo studio, “Ikea è consapevole che la cattura del carbonio nei prodotti rinvia, in media, di soli vent’anni il rilascio di emissioni nell’atmosfera”. Con la conseguenza che “la liberazione del carbonio immagazzinato vanifica ogni positivo impatto sul clima”.  

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Bocciata anche Amazon

Infine Amazon, il cui piano sul clima è stato catalogato come di “bassa integrità” dal report. La società di Bezos ha dichiarato in una nota che si impegnerà a raggiungere il target zero nel 2040, con dieci anni di anticipo rispetto a quanto stabilito dagli accordi sul clima di Parigi. Nel frattempo, l’obiettivo del colosso dell’e-commerce è di utilizzare entro il 2025 il 100% di energie rinnovabili, di rendere a emissioni zero la metà delle spedizioni e di impiegare 100mila veicoli elettrici. 

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