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Perché la guerra può rallentare la transizione energetica e il boom delle auto elettriche

Da un paio d’anni a questa parte, l’industria automobilistica mondiale non trova pace. Prima ha dovuto fare i conti con la pandemia, poi con la crisi dei microchip, ora con la guerra tra Russia e Ucraina, che sta facendo schizzare verso l’alto i prezzi delle materie prime. Di questo passo, lo sforzo per aumentare la produzione di veicoli elettrici potrebbe non essere sufficiente per raggiungere gli obiettivi. Basti pensare che l’Italia, con il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec), si è impegnata a raggiungere la quota di sei milioni di mezzi elettrici circolanti al 2030. La Commissione europea, nel documento Fit for 55, propone di azzerare le emissioni prodotte dalle automobili nuove entro il 2035. Obiettivi difficile da centrare se rallentamenti e blocchi produttivi dovessero proseguire.

Il caso del nichel

Di certo lo scenario geopolitico non aiuta sul fronte delle materie prime. Ultimo in ordine di tempo è stato il caso del nichel, componente fondamentale per le batterie delle auto elettriche. Lo scorso martedì, infatti, il London Metal Exchange di Londra ha bloccato le contrattazioni del nichel, dopo che il valore ha raggiunto i 100mila dollari a tonnellata. Sono saliti nettamente anche i costi dell’energia e, di conseguenza, quelli produttivi. Tutte conseguenze indirette della guerra tra Russia e Ucraina. La Russia, infatti, è un grande esportatore di gas e petrolio, ma è anche il terzo produttore mondiale di nichel, dietro a Indonesia e Filippine.

Il Cremlino, messo all’angolo dalle sanzioni occidentali, ha annunciato di essere al lavoro su controsanzioni all’indirizzo dei cosiddetti “Paesi ostili”. Misure che dovrebbero riguardare anche le materie prime che l’Occidente continua a importare dalla Russia.

Ad aumentare di prezzo sono anche metalli come litio (+441% anno su anno per il Lithium Price Index secondo Benchmark Minerals), cobalto (+54,75% nell’ultimo anno) e rame (+10,4% a un anno). Fondamentali nella produzione di batterie. E non solo in quelle delle macchine elettriche.

La frenata della produzione

La difficoltà a reperire i semiconduttori aveva già fatto rallentare la produzione del mercato auto. Nei mesi scorsi, grandi aziende come Stellantis, Volkswagen e Toyota hanno tagliato la produzione o hanno addirittura bloccato stabilimenti per la mancanza di microchip.

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Tutte difficoltà che, peraltro, si riflettono nei numeri delle immatricolazioni. Prendendo come metro l’Italia, secondo i dati del ministero dei Trasporti, a gennaio sono state immatricolate 107.814 auto: -19,66% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. A febbraio – 110.869 immatricolazioni complessive – il calo è stato addirittura del 22,56%. La scarsità di componenti ha portato a tempi di attesa di diversi mesi per un’auto nuova. E la crisi energetica minaccia di fare aumentare considerevolmente anche i costi di produzione.

L’aumento dei prezzi

La situazione si è già in parte riflessa sui prezzi delle auto nuove che, secondo i dati dell0Osservatorio Autopromotec, sono saliti del 2,6% nel 2021. L’azienda statunitense Rivian, considerata l’anti-Tesla, è crollata in Borsa nelle scorse settimane dopo avere annunciato la decisione di aumentare i prezzi dei suoi veicoli elettrici del 20%. Creando, quindi, diversi dissapori tra i suoi clienti, visto che l’aumento è stato applicato a tutti i preordini esistenti. In una lettera agli azionisti, RJ Scaringe, fondatore e amministratore delegato dell’azienda, ha affermato che l’incremento dei prezzi è stato dettato dall’aumento dei costi dei materiali necessari per realizzare i veicoli, compresi i semiconduttori.

Anche Tesla, riporta Reuters, di recente e per le medesime ragioni ha ritoccato ancora i prezzi americani delle sue Model Y e Model 3 di mille dollari ciascuna. Lo stesso ha fatto in Cina, dove i due modelli costano 10mila yuan (circa 1.500 dollari) in più.

Il peso della geopolitica

Il caso delle auto elettriche è forse tra i più emblematici, ma è tutto il processo di transizione energetica che rischia di rallentare. Un rapporto del 2017 della Banca Mondiale ha rilevato come la transizione alle tecnologie verdi, nell’ottica di limitare l’aumento delle temperature globali a due gradi entro il 2050, richieda l’estrazione di più di 600 milioni di tonnellate di metalli rari. Tra questi c’è il palladio, di cui la Russia è il primo esportatore al mondo, con una quota del 45% della produzione a livello mondiale.

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Putin ha inoltre ottimi rapporti con la Cina, che, come riporta l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), prima della pandemia estraeva almeno il 62,8% di tutte le terre rare. Le relazioni dell’Occidente con entrambi i Paesi si sono deteriorate negli ultimi anni, fino allo scoppio della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina dell’era Trump – non ancora conclusa – e alle attuali tensioni dovute alla guerra tra Russia e Ucraina. Va da sé che una transizione energetica di successo dovrà per forza passare anche attraverso una normalizzazione dei rapporti con Mosca e Pechino.

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