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Dai danni economici, alle svolte politiche: cosa potrebbe succedere in caso di default della Russia

Stretta dal laccio delle sanzioni Occidentali, la Russia rischia di aggiungere le difficoltà finanziarie a quelle già manifestate sul campo di battaglia in Ucraina. Al momento il Cremlino non può finanziarsi sui mercati esteri, né utilizzare le riserve in valuta pregiata (euro o dollari) che detiene all’estero. Questo significa che il debito pubblico della Russia potrebbe non essere ripagato. Tuttavia non è ancora accaduto, nonostante agenzie di rating come Fitch, S&P e Moody’s abbiano declassato il debito sovrano sotto la soglia dell’investment grade, praticamente al livello junk (spazzatura).

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La Russia ha un debito molto basso

Attualmente Mosca non è un grande debitore sul mercato internazionale dei capitali. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, il rapporto debito/Pil si attesta appena sotto il 20%. E, come riporta l’osservatorio conti pubblici dell’Università Cattolica, con un Pil di circa 1.650 miliardi di dollari nel 2021, il totale del debito sovrano russo si attesterebbe ora intorno ai 295 miliardi di dollari.

Perché il 4 aprile è una data importante

Al 20 settembre 2021 il debito della Russia con investitori esteri, privato e pubblico, ammontava a 495 miliardi di dollari, di cui 358 miliardi denominati in valuta estera. Nonostante le difficoltà dovute all’isolamento sui mercati, la scelta del governo russo è stata quella di evitare il default. E infatti finora le varie cedole sono state pagate. La vera prova sarà però il 4 aprile, quando scadranno 2 miliardi di obbligazioni in dollari. Se la Russia pagherà, continuerà la situazione di stallo. Viceversa potrebbe decidere di pagare in rubli, cosa però che farebbe comunque scattare l’insolvenza. Di fatto gli investitori, in violazione degli accordi, si troverebbero tra le mani una valuta che non potrebbero scambiare in euro o in dollari, con la spada di damocle della svalutazione.

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I rischi per le banche italiane

L’effetto domino di un eventuale default causerebbe un’ulteriore crisi di fiducia sulla Russia, con il conseguente crollo del rublo e la sofferenza economica di famiglie e imprese locali. Una situazione non ottimale per chi ha operato nel Paese, come alcune importanti banche italiane che hanno fatto prestiti. Il ministro dell’Economia e delle Finanze italiano, Daniele Franco, ha detto che l’esposizione verso la Russia delle due grandi banche nazionali (Intesa Sanpaolo e Unicredit) è rilevante. 

Sia Unicredit che Intesa Sanpaolo, però, hanno rilasciato note ufficiali tutto sommato tranquillizzanti sulle loro posizioni con la Russia: Intesa Sanpaolo ha dichiarato un’esposizione complessiva di crediti verso Russia e Ucraina di 5,1 miliardi di euro, pari solamente all’1% dei crediti alla clientela. Da Piazza Gae Aulenti invece hanno dichiarato che “l’esposizione cross border nei confronti di clientela russa è attualmente pari a circa 4,5 miliardi di euro”. E che, nello scenario peggiore possibile, l’impatto sarebbe di circa 200 punti base sull’indice di solidità patrimoniale (attualmente al 15,3%). “La nostra solida posizione di capitale ci consentirebbe di assorbire questo impatto senza scendere al di sotto del 13%”, sottolinea la banca.

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Il fallimento del 1998 e il caso Lctm

Fondi d’investimento e cittadini italiani che hanno nei loro portafogli asset russi, dalle azioni alle obbligazioni, in caso di default rischierebbero di veder crollare il valore dei loro investimenti o anche di perdere il loro capitale. La storia porta alla memoria un caso del passato, che ebbe ripercussioni a livello mondiale. Si tratta dell’hedge fund Lctm che all’epoca era arrivato a gestire un capitale di oltre 4 miliardi di dollari. Il fallimento della Russia, insieme al grande utilizzo della leva finanziaria, ha portato al collasso il fondo che ha poi è arrivato a chiudere i battenti nel 2000. Gli effetti del crack portarono a intervenire perfino la Federal Reserve, che abbassò i tassi d’interesse per evitare il peggio. 

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Le conseguenze del fallimento in Russia

Nel 1998, in Russia, gli effetti del fallimento fecero schizzare all’84% l’inflazione, con effetti sociali enormi sulla popolazione. E diverse banche si trovarono costrette a chiudere. Ci furono inevitabilmente anche conseguenze politiche, con il presidente Boris Eltsin che arrivò a farsi da parte. È da quel marasma che si arrivò poi al rinnovamento dell’establishment e alla scalata di Vladimir Putin, diventato presidente ad interim della federazione russa nel 1999 fino alle elezioni presidenziali del 2000, che consacrarono ufficialmente l’inizio dell’era-Putin.

Oggi la Russia è un’economia più matura di quella del 1998, ma probabilmente non abbastanza per resistere a lungo alle sanzioni Occidentali. E se, da una parte, la leva contrattuale russa su petrolio e gas è notevole, dall’altra un Paese in pesante recessione economica potrebbe in qualche modo arrivare a scalfire la leadership di Putin come fu per Eltsin. Al momento, però, lo Zar sembra ben lontano dal voler lasciare le leve del potere. 

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