Marc-Alexander Christ SumUp
Innovation

“Non ci credeva neanche mia madre”: i primi dieci anni di SumUp, la fintech da otto miliardi

“Quando raccontai ai miei genitori di avere creato un lettore di carte di credito che si connetteva al telefono, mia madre mi disse: ‘Figlio mio, ti voglio bene, ma non può funzionare. Perché non ti cerchi un lavoro vero?’”. Era il 2012 e Marc-Alexander Christ, ex vicepresidente di Jp Morgan, responsabile vendite di Groupon e fondatore di una defunta startup di moda, aveva appena creato a Berlino SumUp, una società di sistemi di pagamento per commercianti. “Se dovessi riassumere in una parola la lezione dei nostri primi dieci anni, direi ‘resilienza’. La nostra azienda è la dimostrazione che continuare a provare ed essere fedeli alla propria visione – anche quando non ci crede nemmeno tua madre – funziona”.

Oggi la società di Christ si è trasferita a Londra ed è partner di più di quattro milioni di esercenti. Ha tremila dipendenti ed è presente in circa 35 mercati. Dal lettore di carte si è allargata a una super app – un’applicazione che mette assieme servizi anche molto diversi – per i piccoli commercianti. Dopo l’aumento di capitale da 590 milioni di euro annunciato a giugno, la sua valutazione è arrivata a otto miliardi.

Oggi deve tenersi al passo con un settore che cambia in fretta. Anche in Italia: secondo l’Osservatorio Pagamenti Cashless della stessa SumUp, nel nostro Paese le transazioni digitali sono aumentate del 17% nell’ultimo anno. Un aumento favorito anche da iniziative del governo – il decreto Pnrr 2 ha introdotto sanzioni per i commercianti che non accettano pagamenti con carta -, sebbene non uniforme tra tutti i settori. In generale, lo scontrino medio cashless nel 2022 è stato di 40,8 euro, contro i 43,4 del 2021, i 51,3 del 2020 e i 57,9 del 2019. Per il futuro, SumUp si è detta convinta che il contante sparirà entro il 2050 e che i pagamenti avverranno sempre più di frequente con dispositivi indossabili, come anelli, braccialetti, adesivi o lenti a contatto intelligenti.

Quali sono stati i momenti cruciali di questi dieci anni?
Devo partire dai primi mesi. Quando abbiamo fondato l’azienda, la nostra era l’unica app del genere nell’Europa continentale. Nel giro di un anno avevamo una ventina di concorrenti. Abbiamo cercato di lanciare subito nel maggior numero possibile di paesi: nel giro di sei mesi eravamo in dieci mercati. La fase più difficile, invece, è arrivata tra il 2014 e il 2015. In quel periodo gli investitori persero interesse per il settore, perché le aziende faticavano a fare profitti. Tutto è cambiato nel 2016, quando abbiamo acquistato Payleven, una nostra concorrente. Da allora abbiamo iniziato a crescere molto in fretta, con nuovi prodotti e altre acquisizioni.

Il fintech sembra andare verso le cosiddette super app. Che idea si è fatto?
Veniamo da un’era di dissociazione dei servizi, in cui ogni azienda si focalizzava su un solo prodotto. Ora tutti cominciano ad allargare la loro offerta. È uno sviluppo naturale: se un’azienda ha instaurato un rapporto con un cliente, conosce i suoi bisogni e sa come ampliare la sua offerta per soddisfarli. Anche il commerciante che cerca un nuovo prodotto trova più comodo avere a che fare con la stessa impresa, perché è sicuro di mettere assieme una gamma di prodotti che comunicano tra loro.

Dato che la tecnologia cambia, cambierà anche la vostra strategia?
I tre pilastri continueranno a essere i pagamenti, il software e i servizi finanziari. Contiamo poi di allargarci ancora a nuovi paesi. Ha senso farlo perché i problemi che i commercianti devono risolvere sono gli stessi ovunque. Inoltre stiamo entrando nel mercato dei servizi per i consumatori.

Dopo il boom dei due anni più intensi della pandemia, il 2022 è stato un anno di contrazione degli investimenti e di crisi per tante startup. Lo scenario la preoccupa?
Quando si parla dello stato di salute del mercato, bisogna fare un passo indietro e non guardare solo all’andamento dell’ultimo anno. Tra il 2020 e il 2021 ci sono stati 18 mesi folli, alimentati anche da misure eccezionali dei governi per rispondere alla pandemia. Era fisiologico che, con il ritorno alla normalità, calasse il consumo di alcuni servizi digitali. Tutti vediamo meno Netflix rispetto al periodo dei lockdown, per esempio. I volumi d’investimento, però, sono ancora superiori a quelli del 2019.

Quindi non è corretto parlare di crisi?
Quello che si sta verificando è un fenomeno salutare. Dobbiamo ricordare che, in condizioni normali, nove startup su dieci falliscono. Negli ultimi cinque anni abbiamo visto tantissime compagnie nascere e pochissime compagnie fallire. Questo crea un grande problema all’industria tecnologica: la difficoltà nel reperire talenti. Se tutti possono permettersi di assumere chi vogliono, diventa molto difficile trovare talenti sul mercato.

Perché l’Italia è ancora in ritardo rispetto ad altri paesi sull’adozione dei pagamenti digitali?
La tecnologia c’è, ma resta il problema di cambiare abitudini. In parte, le resistenze sono normali e si trovano dappertutto: non si può pretendere che una persona di 70 anni si stacchi dai contanti. Poi vanno considerati fattori storici e culturali. Nel Nord Europa ci sono commercianti che non accettano i contanti. Più si va a Sud, più la situazione cambia. L’Italia, però, sta recuperando in fretta, anche grazie a una spinta governativa e fiscale. Aiuta anche il fatto che il vostro sia un paese a vocazione turistica, e a molti viaggiatori il contante non piace.

I governi stanno facendo abbastanza per promuovere i pagamenti digitali?
Ci sono molti fattori che determinano la velocità con cui i paesi si convertono al digitale. Gli interventi governativi sono solo uno dei tanti. La scelta di come pagare, in definitiva, spetta ai consumatori. I governi possono al massimo dare una spinta in più. In Italia questa spinta c’è stata.

Il fintech è ancora un mondo maschile?
Sta migliorando, anche se non è ancora arrivato dove dovrebbe essere. Sta diventando più aperto e inclusivo, riusciamo ad attrarre anche talenti femminili. Da parte nostra, abbiamo in azienda persone di 100 nazionalità diverse e il 45% di donne. C’è ancora del lavoro da fare in termini di leadership femminile, ma stiamo facendo passi avanti.

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