Di Letizia Mencarini, professore ordinario di Demografia all’Università Bocconi
Ciò che fa dell’Italia un paese arretrato nel contesto europeo, e che mina la tenuta futura del “Sistema Paese”, è il sottoutilizzo del capitale umano dei giovani. Il messaggio della 31esima edizione del rapporto annuale Istat sulla situazione del Paese, presentato a Palazzo Montecitorio, è forte e chiaro. L’Istat non si limita a fare luce, con una messe di dati recentissimi, sulla situazione socio-economica dell’Italia, ma individua nella valorizzazione del capitale umano dei giovani e nella riduzione della loro vulnerabilità l’elemento centrale dello sviluppo, della resilienza e della sostenibilità del Sistema Paese nei prossimi decenni.
L’ottimismo per gli indicatori della situazione economica largamente positivi, con una notevole ripresa del Pil (pari al 3,7% su base annua), una dinamica favorevole dell’occupazione e un’attenuazione di quella inflazionistica (del 6,4% su base annua e variazione nulla su base mensile dell’indice nazionale dei prezzi al consumo), viene stemperato dall’erosione del potere di acquisto delle famiglie, che ha aggravato le disuguaglianze economiche, ma soprattutto dalle dinamiche demografiche di veloce riduzione e invecchiamento della popolazione, in particolare di quella in età da lavoro, che ci fanno entrare in una situazione demografica “mai sperimentata finora in queste proporzioni che pone importanti sfide alla sostenibilità del sistema Paese”.
Gli individui in età attiva, tra i 15 e i 64 anni, sono in forte diminuzione (scendono a poco più di 37 milioni), mentre il resto della popolazione (di oltre 21 milioni) è costituita dal un numero crescente di ultra 65enni (in incremento soprattutto i grandi anziani e degli ultracentenari), e da un numero sempre più ridotto dei più giovani. I ragazzi fino a 14 anni sono poco più 7 milioni 334 mila, pari solo a 12,5 per cento del totale della popolazione residente.
La crisi demografica
I nuovi nati sono in calo anno dopo anno (393mila nel 2022, erano 534 mila un decennio prima), non solo per i pochi figli in media per donna (1,24 nel 2022, ancora sotto i livelli pre-pandemici), ma soprattutto per la costante erosione della platea dei potenziali genitori, ormai costituiti dai figli nati negli anni ’90 dei baby-boomers, che numericamente erano il doppio di loro.
I giovani in Italia sono, quindi, innanzitutto pochi e nei prossimi decenni diminuiranno ancora. Eppure – nonostante siano una risorsa scarsa e preziosa per il futuro del Paese – non sembrano essere destinatari di sufficienti attenzioni e risorse.
I giovani italiani studiano e lavorano meno dei loro coetanei europei e sono più spesso nella condizione di stallo di Neet. Pochi dati sono illuminanti. Il tasso di occupazione tra i giovani 15-34 anni è in diminuzione (e pari al 43,7%), e non solo per i crescenti tassi di istruzione: infatti quasi uno su quattro è un“Neet” (not in employment, education or training, cioè non fa nulla, né lavora né è studente o in formazione). Le percentuali di Neet crescono tra i giovani dai 25 ai 29 anni (uno su quattro), tra le ragazze, tra i residenti nel Mezzogiorno e tra gli stranieri. Nella classe di età 30-34 anni, per la quale si possono considerare conclusi anche i percorsi di studi post-laurea, ancora il 12,1 per cento dichiara di non aver mai lavorato (anche se meno tra i laureati, il 7 per cento, e più tra chi possiede al massimo la licenza media, oltre uno su cinque).
La fuga di cervelli continua
La quota di giovani tra i 25 e i 34 anni con almeno un titolo di studio secondario superiore è in crescita e ha raggiunto il 78 per cento, tuttavia rimane ancora di oltre 7 punti sotto la media europea. Nell’ultimo decennio, la quota di giovani di età compresa tra i 18 e i 24 anni che ha abbandonato precocemente gli studi rimane rilevante (pari 11,5 per cento nel 2022), anche se il distacco dalla media Ue27 si è ridotto ed è pari a neanche due punti percentuali.
Tra i laureati la “fuga di cervelli” continua (è del 9,5 per mille tra gli uomini e del 6,7 per mille tra le donne) con perdite verso l’estero da quasi tutte le province italiane, mentre i tassi migratori dei giovani laureati tra le province italiane continuano a sfavore del Mezzogiorno. I giovani italiani scappano in particolare dalle aree interne del paese, soprattutto da quelle del Centro-Sud, esasperando i già noti elementi di fragilità di questi territori e alimentando la spirale della continua riduzione di popolazione: se nelle aree centrali del paese il rapporto tra residenti di 65 anni e più è pari a quasi 117 per ogni 100 giovani in età 15-34 (ed era di 69,5 vent’anni fa!), in molti comuni della fascia appenninica si supera quota 160.
Quasi la metà giovani italiani dichiara segni di malessere in almeno un campo tra istruzione e lavoro, coesione sociale, salute, benessere soggettivo e territorio. La fascia dai 25 ai 34 anni, dove tipicamente i giovani si trovano ad affrontare le tappe cruciali per la transizione alla vita adulta, risulta la più vulnerabile. L’ingresso nel mercato del lavoro, l’uscita dalla famiglia di origine, la formazione di una unione, la scelta di diventare i genitori fanno parte di un percorso ad ostacoli, ritardato e scoraggiato dalla precarietà e dalla frammentazione della condizione lavorativa. E infatti i giovani italiani fanno meno figli e più tardi della media europea.
La spesa pubblica favorisce gli anziani
La spesa pubblica italiana è sbilanciata però ancora nettamente a favore degli anziani, e ha quote di Pil esigue per i giovani rispetto ad altri paesi: la spesa per le prestazioni sociali erogate alle famiglie e ai minori è pari all’1,2 per cento del Pil (a fronte del 2,5 della Francia e del 3,7 della Germania); la spesa per l’istruzione il 4,1 per cento (contro il 5,2 in Francia, il 4,6 in Spagna e il 4,5 in Germania). Il Pnrr vorrebbe andare proprio nella direzione della riduzione del divario intergenerazionale, prevedendo investimenti per migliorare i livelli e la qualità dell’occupazione giovanile, la riduzione della dispersione scolastica e il miglioramento dei livelli di competenze, in particolare con il Piano asili nido e scuole dell’infanzia e il Piano di messa in sicurezza e riqualificazione dell’edilizia scolastica.
Tuttavia è la demografia stessa ad offrire un’occasione per l’investimento quantitativo e qualitativo del capitale umano dei giovani: il numero dei giovani nei prossimi decenni diminuirà del 5,3 per cento per i bambini tra 0 e 5 anni, di oltre il 25 per cento per i giovani tra 11 e 18 anni (in istruzione secondaria), e del 20 per cento per le fasce di età corrispondenti all’istruzione elementare (6-10 anni) e universitaria (19-24 anni).
I “risparmi” evidenti vanno reinvestiti nell’aumento dei tassi di partecipazione all’istruzione e al mercato del lavoro dei giovani, ma anche e soprattutto spesi “per l’incremento della qualità dell’istruzione e della formazione e dal suo orientamento verso i fabbisogni di competenze della società e del sistema produttivo, elementi essenziali per migliorare la qualità e di conseguenza la produttività del capitale umano”.
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