Pieter van der Does Adyen
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L’arte di ricominciare: l’intervista di Forbes al fondatore di Adyen, il gigante olandese dei pagamenti

Il nome viene dallo Sranan tongo, una lingua creola parlata da mezzo milione di abitanti del Suriname. Significa ‘ricominciare’. Perché Adyen, società olandese che fornisce ai commercianti servizi di pagamento e gestione finanziaria, è la seconda azienda fondata dai miliardari olandesi Pieter van der Does e Arnout Schuijff. “In breve, siamo quelli che permettono al negoziante di incassare i soldi del cliente”, spiega van der Does. “Non siamo quelli che costruiscono il pos, ma quelli che lo fanno operare”.

Oggi Adyen permette di pagare con 250 metodi e in 150 valute. Nel 2022 ha registrato 1,3 miliardi di euro di ricavi – il 33% in più rispetto al 2021 – ed elaborato transazioni per 767 miliardi. Quotata ad Amsterdam, ha una capitalizzazione di 50 miliardi. Van der Does ne possiede circa il 3% ed è l’amministratore delegato. “Se la crescita diventasse piatta e tutto si riducesse a una questione di efficienza, forse lascerei spazio a qualcun altro”, dice. “Per il momento, però, la visione del fondatore è ancora utile. Quando apriamo un ufficio in un nuovo paese, per esempio, è come avviare una startup dentro una grande azienda”.

Da Bibit a Adyen

Quando hanno creato Adyen, van der Does e Schuijff avevano un obiettivo ambizioso: reinventare la catena dei pagamenti. Volevano creare una piattaforma per accorpare tutte le fasi delle transazioni elettroniche, dai controlli di sicurezza all’elaborazione, che di norma coinvolgevano diversi attori. E volevano un sistema adatto alle abitudini di pagamento di tutti i paesi e le culture. Per crearlo, hanno sfruttato l’esperienza della loro prima compagnia, Bibit, un’altra società di pagamenti.

“Bibit è nata nel 1999”, ricorda van der Does, il cui primo esperimento imprenditoriale fu come riparatore di motorini nel cortile dei genitori. “Dopo la laurea in economia ad Amsterdam e un anno in Ing, avevo iniziato a lavorare per Elsevier, un editore olandese di giornali scientifici. Mi piaceva perché giravo il mondo: potevo vivere sei mesi a New York, poi spostarmi nel Regno Unito e dedicare il tempo libero alle scalate, la mia passione. A livello professionale, però, non era appagante. Un giorno incontrai la donna che oggi è amministratore delegato di Ey in Olanda. Si accorse che cercavo qualcosa di nuovo e mi suggerì di parlare con suo marito, che aveva una startup fintech ed era in cerca di persone motivate”.

Unicorni e scarafaggi

Nel 2004, nonostante il parere contrario di van der Does, Bibit fu venduta alla Royal Bank of Scotland per 100 milioni di euro. Dopo un paio d’anni, van der Does e Schuijff rimisero insieme una squadra di sette tra fondatori e dipendenti della vecchia società. “Non eravamo sicuri di voler rientrare nel settore dei pagamenti, perché è un mondo stressante. Quando acquisisci il primo cliente, devi essere sempre a sua disposizione e non puoi più dire: ‘Non mi piace quello che stiamo facendo, ricominciamo da capo’. Allo stesso tempo, però, vedevamo aziende che arrivavano al successo in quel campo senza fare nulla di innovativo. Pensammo che, con le competenze che avevamo accumulato, avremmo potuto fare qualcosa di nuovo”.

Adyen è nata così tra lo scoppio della bolla delle dot com e la Grande recessione. Nell’ottobre del 2008, poche settimane dopo il crac della Lehman Brothers, Paul Graham, uno dei fondatori dell’acceleratore di startup Y Combinator, spiegava perché “creare una startup nel mezzo di una recessione poteva non essere una cattiva idea”. A suo giudizio, “la strada più sicura per il successo” era “diventare gli scarafaggi del mondo delle imprese”, cioè saper sopravvivere anche nelle condizioni più avverse. Ovvero ciò che hanno dovuto fare van der Does e Schuijff. “In alcuni periodi, qualsiasi azienda con una buona idea di base può raggiungere valutazioni altissime”, dice van der Does. “Quello in cui è nata Adyen non era uno di quei periodi. Le aziende migliori, però, sono quelle che sanno sopravvivere anche ai momenti più duri”.

L’ascesa di Adyen

Ci vollero cinque anni perché Adyen diventasse redditizia, e non solo per il momento storico sfavorevole. “Eravamo costretti a partire con clienti piccoli, ma una piattaforma come la nostra è ideale per quelli grandi, che hanno un’attività internazionale”. La svolta arrivò nel 2009, grazie all’accordo con Groupon. “A quel punto abbiamo attirato l’interesse di grossi fondi di venture capital. Gli esperti hanno cominciato a indicarci come una storia di successo, e quell’etichetta rende tutto più facile”.

Nel 2015 lo scarafaggio è diventato un unicorno, cioè ha sfondato il miliardo di dollari di valutazione. Tre anni dopo è sbarcato in Borsa. Secondo l’ultima classifica dei miliardari di Forbes, Schuijff e van der Does sono al quinto e al sesto posto nella classifica degli olandesi più ricchi, con patrimoni di 2,4 e 1,8 miliardi di dollari. Tra i loro clienti ci sono eBay, Spotify e Uber, tra gli italiani Brunello Cucinelli, Rinascente e Moncler.

Ora intendono cavalcare tendenze come l’intelligenza artificiale e devono rispondere alle nuove esigenze dei commercianti. “Ormai tutti, dai bar ai centri di yoga, sono su una piattaforma. I commercianti chiedono più servizi: dalle carte di credito per i dipendenti al piccolo prestito per sostituire il macchinario rotto. È un segmento di business molto promettente. Possiamo erogare finanziamenti senza bisogno della due diligence che toccherebbe a una banca, per esempio, perché conosciamo l’esercente e abbiamo già tutti i dati”.

Contro la burocrazia

Nonostante i cambiamenti del mercato e la trasformazione da startup a multinazionale con 27 uffici e duemila dipendenti, sottolinea van der Does, Adyen conserva la cultura delle origini. “Tutti, a prescindere dalla carica, sono sullo stesso piano. Se qualcuno mi chiede perché faccio una cosa, devo spiegarglielo: non posso rispondere che la faccio perché sono l’amministratore delegato. Le persone intelligenti devono sentirsi a loro agio e avere le opportunità che meritano. Vogliamo menti curiose e aperte. Persone che, se ricevono una lettera di lamentele dal vicino, non chiamano l’avvocato, ma suonano il campanello e cercano di discutere per risolvere il problema”.

Anche la burocrazia è minima. “Per esempio, non abbiamo regole rigide sui viaggi e le spese di lavoro. Sta al dipendente decidere se è il caso di comprare un biglietto aereo per volare a incontrare un imprenditore o una bottiglia di vino da 150 euro a una cena con i clienti”. La linea guida è quella che in azienda chiamano no blush policy (‘la politica del non arrossire’): “Chiediamo al dipendente di immaginarsi su un palco, davanti a una platea di colleghi, a dover giustificare le sue spese. Arrossirebbe? Se la risposta è no, vuol dire che ha agito bene”.

Proprio la cultura aziendale è ciò che convince van der Does, 53 anni, a guidare ancora l’azienda in prima persona. “Spesso si fraintende il motivo per cui un imprenditore continua la sua attività. Di solito, quando si supera un certo livello di benessere, non è per fare soldi. Non ho bisogno di guadagnare di più per potermi permettere una macchina o una casa. Quando mi alzo la mattina, non penso che devo creare valore per gli azionisti, ma che voglio trovare una cosa che non funziona e migliorarla”.

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