Meyer Scala
Cultura

Giovani, inclusione e digitale: i valori della Scala di Milano sotto la guida di Dominique Meyer

L’arte e la cultura patrimonio del Paese, ma anche terra promessa per i giovani, per il lavoro e le imprese, per un futuro digitale che può contare su una materia prima esclusiva e indistruttibile, potente azione di contrasto alla povertà educativa e tessuto connettivo ideale per un capitale umano di primo livello in tutti i campi.

Per questo la Scala di Milano, una delle più prestigiose fondazioni culturali al mondo, è tra le protagoniste, anche in chiave di soft power internazionale, per il nostro Paese. Se poi il referente è un apolide della cultura ma anche un economista, come Dominique Meyer, il cerchio si chiude.

Economista e direttore teatrale. I due elementi devono combinarsi? È possibile nel momento in cui si toccano luoghi sacri come la Scala?
Credo che questo pensiero non debba riguardare solo le icone mondiali, ma anche le realtà più piccole, meno note. Ogni volta che prendi una decisione culturale, devi essere consapevole delle conseguenze sull’organizzazione e sulle persone. In un mondo senza limiti, che ne sarebbe delle nostre passioni? Se davanti a una pasticceria con tutti quei dolci li mangiassi tutti, che fine farebbe il piacere del gusto? Anche l’arte ha bisogno di limiti, proprio per poterli superare. Un gioco intellettuale interessante.

Possiamo dire che l’Italia è, e sarà sempre, culla dell’arte e della cultura e che deve puntare su questo soft power per affermare il proprio marchio?
L’Italia lo fa. A volte ci sono da una parte un eccesso di orgoglio, dall’altra l’abitudine ad autoflagellarsi. Vedo flussi turistici enormi a Milano, vedo quello che succede a Firenze, a Roma, a Bologna. La difficoltà, secondo me, è trovare un equilibrio giusto tra l’esigenza di tenere in ordine questo patrimonio e la sua fruizione. La più grande critica è che questo non sempre avviene: siamo orgogliosi di un passato che non abbiamo realizzato noi, ma dobbiamo cercare di esserne all’altezza, che non significa intensificare lo sfruttamento, trasformando le città in Disneyland. Si deve trovare un equilibrio e definire le priorità. In Italia – ma è lo stesso in Francia, anche se forse non a questo livello – ci sono dappertutto bellissimi teatri, ma chiusi. Si dovrebbe lavorare per riaprire questi luoghi, cercare il coinvolgimento della popolazione su un progetto culturale locale.

La Scala, e più in generale il teatro, valori artistici come la lirica o la danza possono contrastare la povertà educativa, in un’era segnata dalla grande velocità del mondo social?
La gestione del tempo è una questione spesso ignorata, ma fondamentale. Per esempio, non si può accelerare la messa in scena di un atto di un’opera o di una sinfonia, non puoi farli in 30 minuti o ridurli in 100 pezzi di qualche secondo. Bisogna restituire la dimensione temporale, il senso della durata. Non possiamo scendere dal treno prima che sia arrivato in stazione. Non c’è una ricetta infallibile per riavvicinare i ragazzi, ma so che occorre aprire il dialogo prima possibile, già con i bambini. Alla Scala incentiviamo la partecipazione delle famiglie con prezzi molto bassi, perché i genitori possano portare i bambini a vedere gli spettacoli. E il risultato è che uno spettatore su tre ha meno di 30 anni. Vengono e sono felici, partecipano. Non è ricerca di uno status sociale, ma partecipazione vera.

Che impatto può avere l’onnipotenza del digitale?
Ho sempre seguito con passione l’evoluzione tecnologica, già da quando, da consulente del ministro francese della Comunicazione, ho dedicato quattro anni alla seconda fabbrica mondiale di cd. Un’icona culturale come la Scala non può restare indifferente, anzi, deve assumere anche in questo un ruolo di leadership, dare l’esempio: quando sono arrivato, ho scoperto che la Scala consumava dieci tonnellate di carta all’anno solo per gli spartiti agli artisti. Oggi si studia sui tablet. Ma anche nella produzione l’innesto del digitale ha portato grandi benefici: abbiamo un sistema di streaming che ci permette di registrare e proporre i nostri lavori a tante scuole e istituti italiani di cultura. Anche all’estero, a soggetti che altrimenti non avrebbero possibilità di accedere. Vogliamo sviluppare questa tendenza.

Se disponesse di un teatro con un pubblico di soli giovani e dovesse scegliere un’opera teatrale per toccare i loro animi, quale sceglierebbe?
Un’opera breve ma drammatica: Tosca è perfetta perché ha un colpevole e una vittima e quindi scatena una reazione forte, immediata. Ma, se me lo chiedesse in un altro momento, cambierei parere: l’opera è stata creata da compositori che volevano mettere in musica il più grande numero possibile di emozioni e dunque l’arte consiste nel creare l’emozione tramite le emozioni.

Il teatro ha ancora rilevanza socio-politica?
Credo molto a questo ruolo. Ogni volta che la società italiana è entrata in crisi, questo teatro è stato tra i primi a rialzarsi e andare avanti. La Scala deve essere all’altezza del suo passato. Non è facile, ma un grande teatro deve dare l’esempio. Penso ai temi dell’inclusione e credo che i nostri teatri possano far progredire questa cultura: nel rispetto delle minoranze, nel rapporto tra uomini e donne e nel rispetto delle fragilità e disabilità. La Scala su questo c’è.

Dal 2005 il teatro è retto da sovrintendenti non italiani. Nessuno è profeta in patria? O la cultura non ha nazionalità?
Lavoro in questo Paese dal 1981. Mi sono sempre sentito a casa, sono stato abbracciato e accolto molto bene da tutti, qui come a Como, a Portofino e a Roma. Da tanti anni sono parte attiva del mondo culturale italiano. Anche a Vienna è stato così: il mondo della cultura deve essere aperto, non è un vantaggio né uno svantaggio essere straniero. Credo che una persona diventi più ricca prendendo il meglio delle sue esperienze in diversi paesi e portando il risultato di queste esperienze in diverse realtà. Non conta essere nato qua o là. Aver viaggiato tanto mi ha consentito di assorbire come una spugna tutto quello che queste realtà mi hanno potuto dare. Siamo più ricchi se siamo capaci di capire che altri fanno alcune cose meglio di noi e allora, se non siamo troppo orgogliosi, possiamo semplicemente riproporre quello che altri hanno fatto bene.

Il più grande in assoluto? Tra gli italiani, e non solo, forse Verdi?
Non mi piacciono le classifiche. Darò una risposta alla francese: sono capace di essere fedele a tanti contemporaneamente. Mi sveglio la mattina sentendo Bach, poi un po’ più tardi Mozart e sono felice di sentire Verdi o Chopin: la vita è bella perché è colorata, perché abbiamo avuto la fortuna di avere tutti questi geni che ci hanno dato opere straordinarie. Non voglio rinunciare a uno perché amo l’altro.

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