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Tassa sugli extraprofitti delle banche e sviluppo del Paese: due strade difficili da conciliare

Articolo di Stefano Caselli, direttore della SDA Bocconi School of Management

La tassa sugli extraprofitti irrompe improvvisamente sulla scena durante l’estate, sorprendendo operatori e opinioni pubblica, con l’obiettivo di imporre un ulteriore carico fiscale sulle banche italiane. La giustificazione politica di fondo di questa scelta repentina è quella di una mossa a favore dell’equità e della redistribuzione delle risorse in quanto le banche avrebbero beneficiato senza sforzo della crescita dei tassi di interesse nell’ultimo anno, conseguendo profitti fuori misura.

Per acquisire un’opinione complessiva e per provare a immaginare cosa possa accadere, occorre riflettere sul contenuto della norma stessa, sugli effetti che può provocare e, non da ultimo, sulle modalità con cui la norma è stata presentata e, eventualmente, corretta.

La scelta riguarda gli esercizi 2022 e 2023 ed è quella di andare ad introdurre un prelievo di natura straordinaria, pari al 40% della differenza tra l’importo del margine di interesse dell’esercizio e quello dell’anno precedente, ponendo comunque un limite massimo di prelievo, proporzionale alla dimensione dell’attivo della banca.

L’assunto è quindi il seguente: se i tassi di interesse sono cresciuti e la banca non ha fatto salire in misura equivalente i tassi attivi e i tassi passivi, la banca beneficia di un profitto straordinario (non “giusto” secondo l’opinione di chi ha scritto la norma) da riequilibrare a favore della collettività e dei risparmiatori. Non solo, ma il non detto della norma è che se le banche volessero ridurre l’effetto di questo prelievo nel corso del 2023, dovrebbero alzare i tassi sui depositi.

Le conseguenze dalla misura

La prima domanda da porsi è se l’operazione rispecchi correttamente l’obiettivo e la seconda è quali sono le conseguenze. Rispetto agli obiettivi è sicuramente vero che quando i tassi di interesse salgono (e l’opposto quando scendono) il margine di interesse aumenta, in quanto le banche trasferiscono subito l’effetto sui prestiti a tasso fisso e trasferiscono molto lentamente invece questo aumento sui depositi a vista.

Tuttavia, la crescita del margine di interesse dipende anche dal fatto che la banca potrebbe aver aumentato la propria attività di concessione dei crediti e soprattutto aver ridotto o limitato la raccolta dei depositi spingendo la clientela ad investire la propria liquidità in titoli con tassi di interesse più interessanti. La funzione dei depositi non è certo quella di rappresentare una modalità di investimento ma uno strumento di impiego temporaneo della propria cassa. Per questo motivo, in larga parte dei paesi europei e nel sistema anglosassone, i depositi non hanno remunerazione.

Quali sono quindi le conseguenze di questa scelta e i rischi a cui il sistema bancario italiano va incontro? Le conseguenze sono diverse e in larga parte purtroppo negative a fronte del maggiore gettito che ne deriva per lo Stato.  Una prima considerazione è legata alla presunta equità della norma: se una banca avesse significativamente aumentato il margine di interesse per effetto di una politica dei prestiti espansiva per sostenere il sistema economico e avesse comprato più titoli di Stato italiani, per sostenere di fatto il nostro debito pubblico, si troverebbe soggetta ad una tassazione più alta.

La reazione nel corso dell’anno 2023 sarebbe quindi in teoria quella di frenare la concessione di nuovi prestiti oppure di sostituire a tassi più alti semplicemente commissioni più alte. Senza citare il fatto che la reazione potrebbe essere anche quella di ridurre i titoli di Stato italiani in portafoglio.

Peraltro, una crescita delle commissioni tenderebbe a diventare strutturale e quindi a rimanere invariata con molta più rigidità quando i tassi dovessero iniziare a salire. Difficilmente una reazione sarebbe quella di alzare i tassi sui depositi proprio perché l’aiuto vero a risparmiatori non è quello di pagare tassi più alti, ma di spingerli a investire correttamente i propri risparmi in titoli e strumenti finanziari.

Non possiamo in ogni caso permetterci che le banche limitino la propria spinta a concedere prestiti in una fase del ciclo economico in cui la crescita sta venendo progressivamente meno e la base economica del nostro paese è fondata su piccole e medie imprese che fanno dei finanziamenti bancari la fonte principale. Non possiamo neanche permetterci che le banche considerino l’ipotesi di vendere in massa titoli di Stato. Con un debito pubblico che ha superato i 2.600 miliardi di euro dobbiamo anche fare sì che la fiducia degli investitori nel paese rimanga sempre alta.

L’esempio della Spagna

L’idea e anche la modalità con cui è stata annunciata la norma, fanno porre un punto di domanda proprio sul tema fiducia in quanto pongono dubbi sulla natura business friendly del nostro sistema. Per questo, la modalità con cui la norma è stata comunicata è parte del problema stesso. L’assenza di un confronto con i principali attori del mercato e anche l’etichetta scelta (“extraprofitto”) non hanno sicuramente contribuito.

In Spagna è stata inserita una norma analoga ma è stata concordata con le banche e soprattutto è andata a colpire una tantum non il margine di interesse ma il margine di intermediazione. In questo senso, un’azione concordata e costruita su un meccanismo più equo oltre a un’etichetta completamente diversa (da “extra profitto”a, per esempio, “contributo di solidarietà per lo sviluppo”) avrebbero avuto un effetto completamente diverso. Considerando il fatto che le banche sono fra i pochi attori economici che pagano già da tempo strutturalmente un’Ires più alta rispetto alle altre aziende.

Il necessario confronto con il sistema bancario

Cosa potrà accedere è legato a questi temi. Oltre ad un re-branding opportuno della norma, è fondamentale che – se si vuole mantenerla – si proceda ad un confronto con il sistema bancario per mitigarne gli effetti e per correggerne soprattutto le conseguenze che non sono certo di supporto al nostro sistema economico. È difficile che il Governo cancelli la norma, ma viste le perplessità anche di alcune parti della maggioranza e soprattutto la reazione dei commentatori e degli investitori, è probabile che venga corretta.

Detto questo, è importante che accanto a queste scelte, il nostro sistema proceda anche su altre scelte, legate invece al completamento e all’attuazione del “Decreto Capitali” e al disegno di una fiscalità che sostenga il collegamento tra il risparmio e il sistema economico. Il sistema finanziario non è solo uno strumento di creazione di profitti ma soprattutto è l’infrastruttura che permette ad un paese di attrarre investitori, di mantenerli e di promuovere lo sviluppo economico. Di tutte queste cose, il nostro paese ne ha sicuramente bisogno.

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