Articolo tratto dal numero di gennaio 2024 di Forbes Italia. Abbonati!
La tentazione è lasciar perdere le beghe italiane. La carne coltivata come i balneari: un sovranismo normativo che si scontra con il diritto europeo. Non è la prima volta, né sarà l’ultima. Il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, è andato fino in fondo alla sua battaglia identitaria. E il presidente della Repubblica Mattarella alla fine ha ceduto, firmando la legge che vieta nel nostro Paese la produzione e la vendita della cosiddetta carne coltivata. La faccenda, però, è un po’ più complessa di così. Dunque, piuttosto che lasciare perdere, meglio approfondire per capirci qualcosa.
Una legge inutile
Il via libera di Mattarella è arrivato solo dopo che il governo ha notificato alla Commissione europea l’approvazione della legge di Lollobrigida e dopo che l’esecutivo ha promesso che si sarebbe adeguato a eventuali obiezioni delle autorità europee. Il mercato unico, infatti, vieta a un paese di bloccare unilateralmente la vendita di un tipo di cibo approvato per il resto dell’Unione. Ma la legge ormai c’è, la bandierina è stata piantata: Lollobrigida paladino della sovranità alimentare, difensore degli allevatori che temono di essere spiazzati dalle novità della scienza. E anche se il governo ha promesso di recepire i rilievi di Bruxelles, ci sono poche garanzie che mantenga gli impegni.
Peraltro il divieto di Lollobrigida al momento è inutile. O meglio, è una specie di veto preventivo. Perché l’Efsa, l’ente comunitario che si occupa della sicurezza alimentare in Europa, finora non ha ricevuto alcuna richiesta di autorizzazione da produttori di carne coltivata. La procedura è questa: quando un’azienda di carne coltivata depositerà il proprio dossier, allora l’Efsa si prenderà 18 mesi per valutare se il prodotto è sicuro per i consumatori.
Se l’ente darà l’assenso, allora il blocco di Lollobrigida si scontrerà con un prodotto approvato per la vendita nell’Unione europea. Secondo alcuni, se Bruxelles bocciasse il divieto, l’Italia, più che tornare indietro, potrebbe proporre un compromesso analogo a quello raggiunto da alcuni paesi per gli organismi geneticamente modificati (ogm). In deroga alle leggi sul mercato interno, il compromesso permette agli stati di vietare la coltivazione di ogm sul loro territorio. In base a questo principio, l’Italia potrebbe impedire la produzione sul proprio suolo di carne coltivata, consentendone però la circolazione e la vendita. Ma che cos’è esattamente la carne coltivata? Chi la produce e in quali forme? Ed è davvero una minaccia per gli allevatori che Lollobrigida dice di proteggere?
Che cos’è la carne coltivata
Innanzitutto bisogna sgombrare il campo dagli equivoci. Carne coltivata non vuol dire sintetica. È vera carne di maiale, pollo, manzo o pesce, del tutto simile a ciò che siamo abituati a comprare dal macellaio. La differenza è il modo in cui viene ottenuta. Da una parte gli allevamenti, spesso intensivi, che hanno anche grossi vantaggi: permettono una dieta varia e a basso costo che stupirebbe i nostri antenati. Ma conosciamo l’inconveniente: la carne è economica perché miliardi di animali trascorrono vite decisamente poco piacevoli.
Il sistema alimentare, inoltre, contribuisce in modo significativo all’effetto serra, con circa il 30% delle emissioni. Non è un equilibrio molto efficiente: secondo uno studio pubblicato sulla rivista Science, i prodotti animali forniscono il 18% delle nostre calorie, utilizzando però l’83% dei terreni agricoli nel mondo. La carne coltivata, insieme a quella di origine vegetale, potrebbe essere una soluzione. Un modo diverso di produrre calorie, forse in grandi quantità, certamente con minor impatto ambientale. Gli animali sviluppano naturalmente grasso, muscoli e tessuto connettivo. La sfida è replicare in bocca la consistenza delle loro carni.
Si parte con l’acquisizione e il prelievo di cellule staminali da un animale. Queste cellule poi vengono inserite in bioreattori a grandi densità e volumi per essere ‘coltivate’, cioè alimentate con aminoacidi, glucosio, vitamine e sali inorganici. Il tutto viene condito con ossigeno e altri fattori di crescita. L’obiettivo è innescare differenziazioni nelle cellule staminali in muscoli scheletrici, grasso e tessuti connettivi. Le cellule differenziate vengono poi raccolte, preparate e confezionate in prodotti finiti.
Questo processo dovrebbe durare dalle due alle otto settimane, a seconda del tipo di carne. Alcune aziende stanno perseguendo una strategia simile per creare latte e altri prodotti animali. “Nel lungo termine, l’obiettivo delle società attive in questo business è produrre tutti i tagli di carne”, spiega Francesca Gallelli, consulente per gli affari pubblici del Good Food Institute (Gfi), una no profit che promuove alternative vegetali e coltivate a carne, latticini e uova.
Chi produce carne coltivata
Adesso, però, cerchiamo di capire quale sia lo stato dell’arte di quest’industria e se sono giustificate la battaglia di Lollobrigida e la paura degli allevatori della Coldiretti. Per ora nel mondo esistono solo due aziende che hanno incassato il via libera delle autorità sanitarie per vendere carni coltivate. Cominciamo da Eat Just, una società di San Francisco, con una divisione di carne coltivata chiamata Good Meat. Il fondatore, Josh Tetrick, è stato appena inserito dalla rivista Time tra i 100 business leader più innovativi nella lotta al cambiamento climatico.
Il pollo di Good Meat ha esordito nel 2020 a Singapore, il primo paese ad aver approvato la vendita di carne coltivata. Si tratta perlopiù di spiedini serviti in alcuni ristoranti gourmet, bancarelle e app di consegna di cibo. Dal 2022 questo pollo si può mangiare nel ristorante all’aperto del negozio di gastronomia Huber’s Butchery, sempre a Singapore. Due opzioni: un panino farcito con peperoni, avocado, lattuga, senape e pezzi di pollo, oppure orecchiette alle verdure con sopra pollo croccante. Prezzo: circa 18 dollari per entrambi i piatti.
Nel 2023 l’azienda di Tetrick ha ottenuto il via libera anche delle autorità statunitensi, la Food and drug administration e il Dipartimento dell’agricoltura. Negli Stati Uniti Good Meat spedisce regolarmente il suo pollo in un ristorante peruviano cinese di Washington D.C, China Chilcano. Qui lo chef Andrés José, nel suo menu degustazione, serve un “piatto di ispirazione peruviana a base di pollo coltivato e marinato con salsa anticucho”, il tutto accompagnato da “patate autoctone e chimichurri di ajì amarillo”. In un post recente sul profilo Instagram di Good Meat si legge: “Negli ultimi tre anni abbiamo servito bao di pollo, satay di pollo, fagottini di pollo, riso al curry con pollo, antichucos peruviani e altri piatti deliziosi”.
Il business della carne coltivata
A questo punto si possono fare due considerazioni. La prima è che l’offerta di Good Meat è ancora su scala molto ridotta: una collaborazione fissa con due ristoranti più qualche evento speciale in giro per gli Stati Uniti. A New York, durante la settimana del clima, a settembre, il suo pollo è stato servito da MissionCeviche, peruviano dell’Upper East Side, dove si erano radunati alcuni leader d’azienda. Le foto mostrano tranci di pollo piuttosto spessi, con accanto verdure e purè di patate. Se la quantità è ridotta, l’offerta però sembra abbastanza varia, nel senso che Good Meat è in grado di riprodurre diverse forme di pollo: dallo spiedino alla crocchetta, fino a fette più grandi.
Il problema sono i margini di guadagno. Eat Just ha appena ricevuto una nuova iniezione da 16 milioni di dollari per uscire, scrive Bloomberg, da una situazione finanziaria “difficile”, poiché il business ancora “non è sostenibile”. Né quello delle proteine vegetali, né la carne coltivata.
Un articolo di Wired di novembre ha spiegato che secondo alcuni addetti ai lavori Eat Just è in “grossi guai finanziari”. La startup sarebbe stata citata in giudizio per oltre 100 milioni di dollari. E gli ex dipendenti affermano che questo è solo l’inizio. Preoccupa in particolare la sostenibilità dell’espansione decisa per la sussidiaria Good Meat. A maggio 2022 è stato annunciato un accordo per costruire dieci bioreattori giganti per la carne coltivata, un progetto molto più grande di quelli tentati prima dall’azienda.
L’obiettivo è chiaro: produrre su scala più vasta. Il piano, però, si è incagliato in controversie legali per conti non pagati. La società di bioreattori Abec aspetta ancora un bonifico da 61 milioni di dollari. Un’altra azienda di ingegneria ha fatto causa per più di 4 milioni e una società di trasformazione alimentare per più di 450mila dollari. Tetrick ha spiegato che adesso la priorità di Good Meat sarà contenere i costi delle sue strutture di carne coltivata. “Dobbiamo trovare un modo per costruire strutture su larga scala spendendo meno di mezzo miliardo di dollari”, ha detto. “Altrimenti quello che stiamo facendo non funzionerà”.
La seconda azienda che ha ricevuto l’ok delle autorità sanitarie si chiama Upside Foods. Anche questa per ora si limita a vendere carne coltivata a un solo ristorante, Bar Crenn, uno stellato di San Francisco. Dominique Crenn, la chef, all’inizio non era molto convinta di questa innovazione. “Amo gli allevatori, amo il gusto della carne”, ha detto. “Però sono contro gli allevamenti intensivi. Non sono sostenibili”. Crenn dice che il primo pollo che ha assaggiato era un po’ molliccio. Ma il sapore era buono, le ricordava quello del poulet rouge, una varietà autoctona della Francia. Upside è riuscita a riprodurre per Crenn un intero petto di pollo coltivato. Ma anche per quest’azienda l’obiettivo è raggiungere economie di scala, riducendo i costi.
In Illinois Uspide Foods aprirà un impianto chiamato Rubicons, 187mila metri quadrati di bioreattori che, afferma il comunicato stampa, dovrebbero sfornare milioni di chili di prodotti a base di carne coltivata, a partire dal pollo. Per questi prodotti – carne trasformata, crocchette, hamburger, quindi tecnologicamente più modesti rispetto al trancio intero di pollo – Upside Foods non ha ancora ottenuto il via libera degli enti di sicurezza.
Che cosa succede in Europa
Un’altra società che sembra tra le più avanzate nell’assemblare tagli specifici di carne è l’israeliana Aleph Farm. Il suo obiettivo è commercializzare la prima bistecca di manzo coltivato al mondo. Aleph Farm è stata anche la prima società a inviare, nell’estate 2023, una domanda di autorizzazione in Europa, in Svizzera e in Inghilterra, quindi non nell’Unione europea. Non è chiaro se questa richiesta sia legata alla bistecca: potrebbe riguardare altri prodotti trasformati. Nell’Ue c’è un’azienda che nel 2023 ha dichiarato di aver avviato colloqui preliminari per acquisire informazioni su come inviare il dossier. Si tratta di Cultivated B, una società tedesca specializzata in salsicce coltivate.
Un’ultima informazione: il settore, tra carne e pesce coltivati, ha raccolto circa 3 miliardi di dollari di finanziamenti. La vera domanda è quale sia il margine di crescita del mercato. La carne vegetale, ad esempio, sta vendendo meno: è ancora troppo cara e sembra destinata a rimanere un prodotto di nicchia. L’offerta di carne coltivata per ora è su scala piccola, ma ci sono grandi ambizioni e la tecnologia evolve rapidamente. Vale la pena provarci. L’Italia sbaglia a restare indietro.
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