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Perché abbiamo sempre più bisogno di lavoratori anziani

Ricche, ma sempre più vecchie: va cercato forse nella demografia il punto debole delle società sviluppate. Accade più o meno la stessa cosa dappertutto: con il benessere la vita si allunga e si fanno meno figli. Questo ha ripercussioni politiche, sociali ed economiche. Piano piano entra in crisi uno dei pilastri su cui sono organizzate le società di oggi: un gran numero di giovani che mandano avanti l’economia e aiutano a pagare i conti degli anziani. Si può cercare una soluzione nella tecnologia, ovvero aumentare la produttività con l’automazione, i robot, l’intelligenza artificiale.

Oppure rassegnarsi a lavorare più in là negli anni. Negli Stati Uniti alcuni membri della generazione X (i nati dal 1965 al 1980) sono vicini all’età pensionabile e quasi tutti i baby boomer (1946-1964) ci arriveranno prima del 2030. La novità è che molti di loro continueranno ad andare in ufficio. Uno studio recente pubblicato dal Pew Research Center, centro studi di Washington, mostra che un americano su cinque con almeno 65 anni è ancora attivo: quasi il doppio del 1987. Ma forse la cosa più sorprendente è che il gruppo di chi ha almeno 75 anni è quello in più rapida crescita nella forza lavoro statunitense.

I lavoratori sono sempre più vecchi

Questa tendenza demografica – bassa fertilità e invecchiamento – è in corso più o meno ovunque, a eccezione forse dell’Africa subsahariana, la cui popolazione, secondo uno studio di The Lancet, triplicherà entro il 2100. Il paese più anziano del mondo è il Giappone. Chi ha 65 anni o più rappresenta il 29,1% della popolazione e si dovrebbe arrivare al 34,8% nel 2040. Una persona ogni dieci ha raggiunto o superato gli 80. Di conseguenza il tasso di occupazione degli anziani è probabilmente il più alto al mondo. Gli impiegati con età pari o superiore a 65 anni costituiscono oltre il 13% della forza lavoro (per fare un paragone: la quota negli Usa è del 7%, in Germania del 4%). Lo scorso anno, si legge in un articolo di Nikkei Asia, quasi il 40% delle aziende giapponesi, il doppio rispetto a dieci anni prima, ha consentito ai dipendenti di lavorare fino a 70 anni e più. Anche se non basta per alleviare il costo delle pensioni sul budget del governo.

In Europa, tra i paesi più attempati spicca l’Italia. “Forse mi toccherà andare in ufficio con il badante”, scherza un manager 65enne impiegato nella comunicazione di una grossa società. Ma un titolo dell’agenzia Adnkronos toglie la voglia di ironizzare. “Boom di lavoratori anziani in Italia”. L’agenzia cita l’ultima ricerca di Inapp-plus, secondo cui “nel 2022 la percentuale di lavoratori di età compresa tra 50 e 64 anni ha superato il 37%”, in crescita del 21% rispetto al 2005 e del 27% rispetto al 2012. Sempre l’Inapp, in uno studio fatto su “un campione rappresentativo di piccole e medie imprese italiane”, segnala che oltre il 20% degli imprenditori ha notato un invecchiamento dei propri dipendenti negli ultimi cinque anni.

Che cosa dice la ricerca

A questo punto la domanda è: che impatto ha tutto ciò sulla qualità del lavoro e le prestazioni di un’azienda? Il lavoratore che invecchia diventa anche meno brillante? Gli imprenditori del campione Inapp temono di sì. Oltre il 28% considera l’aumento dell’età uno svantaggio e ha paura che possa compromettere la capacità “di gestire carichi di lavoro, affrontare nuove mansioni e dimostrare flessibilità”. Sono timori legittimi. Anche le menti più dotate, forse proprio per la consapevolezza di avere (o aver avuto) talento, si preoccupano di perdere colpi invecchiando. Martin Amis, lo scrittore inglese morto l’anno scorso a 73 anni, aveva confessato al Guardian nel 2021 che alla sua età era molto più difficile scrivere. “Ai vecchi tempi la prosa arrivava più in fretta. Oggi è una battaglia”. La percezione del proprio declino, oltre a paranoia e manie di persecuzione, aveva spinto Hemingway al suicidio a 61 anni.

Eppure, spiegano oggi diverse ricerche, non è detto che con l’età il nostro stato mentale debba peggiorare. A volte l’indebolimento è soltanto questo: una percezione. Qualche anno fa la British Medical Association ha realizzato uno studio per aiutare i medici a gestire una forza lavoro sempre più vecchia. È risultato che per la maggioranza delle persone intorno ai 60 anni qualsiasi lieve deterioramento delle capacità e dell’agilità mentale è compensato dall’esperienza e dalle competenze acquisite nel tempo. In effetti, dice lo studio, con l’età possono persino affinarsi l’attitudine a risolvere problemi complessi e le abilità linguistiche. La ricerca, insomma, sembra dimostrare che non c’è alcuna prova concreta che i lavoratori più anziani siano meno produttivi di quelli giovani. Risulta che solo il 5% delle persone sopra i 65 anni mostra segni di deterioramento cognitivo. “La scoperta chiave è che anziani in buona salute ottengono risultati paragonabili ai loro colleghi più giovani”, si legge nel rapporto. In un mondo che invecchia rapidamente, tutto ciò è incoraggiante.

Gli anziani sono i dipendenti più felici

“Non c’è solo il fatto che le nostre società sono diventate più vecchie. La novità è che molti anziani lavorano più a lungo rispetto al passato”, dice Richard Fry, un ricercatore che ha contribuito allo studio del Pew Research Center. Il primo motivo, continua Fry, è che la vecchiaia oggi è vissuta meglio. Anche molto in là con gli anni le persone godono di buona salute e vogliono restare attive. E le aziende, magari a corto di forza lavoro per ragioni demografiche, provano a sfruttare questo nuovo bacino di reclute. Così diverse società negli Stati Uniti offrono politiche mirate per la terza età. Programmi di pensionamento graduale che consentono di ridurre le ore pur continuando a ricevere una parte dello stipendio e dei benefici. Il gigante della tecnologia Cisco offre congedi retribuiti per i nonni. Iniziative analoghe esistono in Giappone: Nojima, un’azienda che vende componenti elettronici al dettaglio, ha rimosso il limite di età pensionabile nel 2021. Oggi impiega circa 30 lavoratori di almeno 70 anni, di cui tre hanno raggiunto gli 80. I limiti basati sull’età “non sono adatti a quest’epoca di centenari”, ha detto uno dei top manager di Nojima. “Non sfruttare al meglio gli anziani è un vero spreco”.

Per Loretta Bar, esperta di risorse umane in Korn Ferry, una società di consulenza globale, il lavoro è un mezzo per restare impegnati. Americana, 65 anni, Bar dice: “Voglio essere occupata, specialmente con un ruolo che mi piace davvero. Lavoro in remoto, e mi sembra di avere il meglio di tutti i mondi”. In un altro sondaggio del Pew Research Center, i dipendenti anziani statunitensi hanno segnalato un più alto livello di soddisfazione lavorativa rispetto ai più giovani. I due terzi di chi ha almeno 65 anni hanno detto di essere estremamente o molto soddisfatti del proprio lavoro. La percentuale è del 55% tra 50 e 64 anni, del 51% tra i 30 e i 49 e del 44% tra i 18 e i 29.

I lavoratori anziani guadagnano anche di più rispetto al passato, oggi circa l’80% dei dipendenti più giovani. Ma vivere a lungo porta con sé la paura che il denaro non basti. “Per quanto tempo dureranno i miei fondi pensione?”, si chiede Stephen Miggels, 72 anni, che lavora ancora da dieci a 20 ore a settimana come sviluppatore di prodotti medici. “C’è questo timore di restare senza soldi perché stiamo invecchiando e vivendo di più. Questo è uno dei motivi principali per continuare a lavorare”. Negli Stati Uniti, scrive la versione americana di Forbes, alcuni anziani lavorano per ripagare i prestiti studenteschi o per provvedere ai loro nipoti. In Italia è più sentito il secondo tema: molti giovani non riescono a mantenersi e hanno bisogno del sostegno dei genitori e, qualche volta, anche dei nonni.

Il valore della saggezza

Le aziende si sono accorte che l’età del personale aumenta. Gli imprenditori, stando alla ricerca Inapp, sembrano preoccupati. C’è il timore che questi dipendenti restino indietro nelle competenze digitali, con una perdita di rendimento per l’azienda. In realtà la ricerca inglese ha dimostrato che le prestazioni non dovrebbero peggiorare troppo. Esperienza e competenze acquisite possono compensare un calo di rapidità. Il trucco è trovare un equilibrio tra punti di forza e debolezza. Arthur Brooks, saggista e docente ad Harvard, ha scritto un libro di grande successo su come gestire le ultime fasi di una carriera, From Strength to Strength (‘Da forza a forza’), uscito a febbraio del 2022. Secondo Brooks, con l’età la brillantezza di un professionista potrebbe diminuire in diversi campi. Per i consulenti di investimenti finanziari il picco sarebbe tra 36 e 40 anni, per i chimici a 46, mentre per gli scrittori il declino avverrebbe tra i 40 e i 55. Sono dati che possono indicare una tendenza generale, anche se non mancano le eccezioni. Nel caso degli scrittori, il quasi 60enne Bret Easton Ellis ha pubblicato da poco uno dei suoi romanzi più riusciti, Le schegge, mentre Ian McEwan a più di 70 anni ha scritto Lezioni, una delle sue opere più ambiziose.

Brooks, il professore di Harvard, crede che la soluzione sia riconoscere che un declino prima o poi arriva, e a quel punto adattarsi. Devono farlo i professionisti, ma anche le aziende e le istituzioni in cui lavorano. La strategia suggerita da Brooks consiste nel trasferire professionisti più attempati in posizioni che si basino meno sull’intelligenza cosiddetta ‘fluida’ e più sull’intelligenza ‘cristallizzata’, cioè su tutto il bagaglio di esperienze e competenze acquisite nella vita. In altre parole, la saggezza. In società che invecchiano, poi, si scommette molto sui benefici della tecnologia: automazione e intelligenza artificiale. I robot fanno il lavoro pesante, gli strumenti di intelligenza artificiale aiutano a essere più rapidi, e ci vuole saggezza per amministrarli bene o non abusarne.

L’immigrazione come risorsa

L’altro rimedio è far entrare giovani da altri paesi. In Giappone l’immigrazione è sempre stata tabù. Ma il calo delle nascite e della forza lavoro ha messo il governo con le spalle al muro. Dal 2022 è permesso agli immigrati che svolgono mansioni specifiche (non altamente qualificate) di fare domanda per rimanere nel paese a tempo indeterminato, insieme alle loro famiglie.

Anche il governo Meloni, il più a destra della storia democratica italiana, ha riconosciuto che il Paese ha bisogno di migranti. Sul sito del ministero del Lavoro si legge come il governo abbia approvato un aumento consistente degli ingressi regolari in Italia: 452mila lavoratori stranieri (extra Ue) per il triennio 2023-2025. L’altra cosa interessante è che questi ingressi probabilmente non saranno sufficienti. Il governo, infatti, aggiunge che il fabbisogno totale è di 833mila migranti (274.800 per il 2023, 277.600 per il 2024 e 280.600 per il 2025). L’Italia, come il resto d’Europa, è bloccata in una relazione di amore-odio con i migranti. Si riconosce che potrebbero essere un rimedio alla forza lavoro che manca. Però le necessità economiche spesso vengono dopo gli imperativi politici. In tutti i paesi ci sono consistenti fette dell’elettorato che fanno resistenza ad accettare nuovi arrivi, anche perché il numero di immigrati, spesso irregolari, è tornato a salire. Il blocco europeo nel 2023 ha ricevuto circa un milione di domande d’asilo, il numero più alto dall’ondata migratoria del 2015-2016.

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