Quattro anni fa Elon Musk ha presentato, in una conferenza stampa a San Francisco, la porcellina Gertrude, che viveva da alcuni mesi con un microchip impiantato nel cervello. Da allora gli esperimenti sul progetto Neuralink sono continuati. Nei primi mesi di quest’anno il microchip interfaccia fra uomo e macchina è stato impiantato a Noland Arbaugh, un quadriplegico selezionato fra gli oltre 1.000 candidati alla sperimentazione. Il paziente ha avuto qualche settimana di benefici, poi il cervello, che si muove nel cranio con un’intensità di tre volte superiore al previsto, ha scalzato l’85% dei microcavi (molto più sottili di un capello) inseriti per circa tre millimeri nella corteccia cerebrale, provocando l’arresto della macchina. Per ovviare a questi problemi, il 21 maggio la Food and drug administration (l’agenzia federale statunitense che regola i prodotti alimentari e i farmaci) ha concesso una seconda autorizzazione per un’inserzione più profonda dei cavi, a circa otto millimetri.
A seguito di questi annunci, il valore di Neuralink, che oggi ha circa 300 dipendenti, è esploso, superando i 7 miliardi di dollari (la società non è ancora in Borsa). Musk ha capitalizzato l’entusiasmo coniando un token di nome Neuralink (che nulla condivide con la società) il cui valore è salito del 1400% in un giorno.
Non solo Elon Musk
In realtà non c’è solo Musk in questo business. Prima della sua discesa in campo, una piccola startup californiana, Syncron, oggi legata a OpenAI (finanziata da Microsoft), ha sperimentato impianti meno invasivi che inviano il microchip alla corteccia tramite uno stent nella giugulare del paziente. Anche Meta (Facebook) si è gettata nel business dei cyborg e vorrebbe superare la scrittura o il sistema vocale per accedere ai computer, facendo in modo che basti pensare una parola perché la macchina ubbidisca al desiderio umano.
Sotto la solita, magistrale regia di Peter Thiel, il cui Founder’s Fund è per la Silicon Valley ciò che fu la Mediobanca di Cuccia per il boom economico italiano, si sta infrangendo la barriera del neurocapitalismo.
Chi comanderà tra l’uomo e la macchina
Conviene capire che cosa sta davvero avvenendo. Gli entusiasmi, al di là dei successi finanziari, sono facili da condividere: se, grazie alla tecnologia cognitiva, il cervello umano potrà dialogare direttamente con la macchina, i quadriplegici potrebbero ricominciare a camminare, le malattie degenerative rallentare, perfino i ciechi recuperare la vista. Tuttavia, come per il tango bisogna essere in due, il rapporto cervello-macchina è necessariamente relazionale, trattandosi di scambio di informazioni. Sicché la grande questione da affrontare è: sarà davvero la macchina a ubbidire al desiderio umano o sarà quest’ultimo a ubbidire alla macchina? Sarà cioè l’umano a beneficiare della macchina, accedendo con immediatezza al suo bagaglio di conoscenze (trovare un ristorante di prossimità semplicemente pensando a una carbonara) o sarà la macchina telepatica (Telepathy è il nome del microchip che Musk sta sviluppando) a profittare dell’accesso ai nostri più intimi e reconditi desideri?
Non solo, ma qualche anno fa Yuval Noah Harari, uno dei guru mediatici beneficiari dei favori del World Economic Forum, scrisse che il cervello umano non solo potrà essere curato, ma anche hackerato, inducendo desideri e bisogni eterodiretti. Quella che si sta aprendo e che i giuristi dovrebbero studiare sotto l’etichetta di neuro-privacy non è questione da poco, perché tocca da vicino il più grande tema che ha accompagnato la nascita e la crescita della civiltà umana, ossia il libero arbitrio, cruciale sopratutto nella costruzione della tradizione giuridica occidentale.
I pericoli del neurocapitalismo
Vale la pena di condividere le preoccupazioni di Rafael Yuste, scienziato della mente e direttore del Brain Project della Columbia University. Dopo 20 anni di ricerche, gli studiosi sono riusciti a far sì che le loro cavie – in genere scoiattoli, ma anche maialini – percepiscano e ‘vedano’ situazioni del tutto immaginarie, capaci di farli mangiare se non hanno fame o fuggire di fronte a pericoli inesistenti. Non si tratta dunque più solo della capacità di analizzare come funziona il cervello, monitorandone gli impulsi, ma si è raggiunta la capacità di decidere come deve funzionare, facendo sì che la corteccia produca le immagini necessarie. È ovvio il potenziale curativo per sofferenze come la schizofrenia, le allucinazioni e forse anche certe forme di cecità. Ma i rischi sembrano devastanti.
Detta in modo brutale, con la scusa di curare una parte cieca dell’umanità, si costruisce una tecnologia che nelle mani sbagliate (ossia quelle delle corporation for profit, essenza del capitalismo) può rendere, perfino fuor di metafora, cieca tutta l’umanità, come nel romanzo Cecità di José Saramago. È un dilemma tragico. Si ha l’impressione che l’umanità, anche senza gli impianti neuro, sia già stata resa cieca, tramite i dispositivi della comunicazione, rispetto ai rischi catastrofici cui la sottopone la macchina micidiale del capitalismo a trazione bellica. I pericoli che Yuste individua, forse in modo psicologicamente scisso, sono legati alla possibilità di costruire un’umanità fatta di cyborg irreversibili, dal comportamento eterodiretto. Una sorta di popolazione schiavile felice come quella immaginata da Aldous Huxley.
Sviluppo senza regole
Di qui la richiesta, per ora assai tenue, di una moratoria o una messa al bando per questo tipo di ricerche, come per fortuna avvenne (almeno in parte) dopo la pecora Dolly con la clonazione umana. Ovviamente non si tratta di questione semplice, non solo per i dilemmi morali: si può argomentare, con Lev Tolstoj, che il libero arbitrio sia un’illusione, sicché già oggi i bisogni e le decisioni sociali sono eterodirette dagli investimenti in marketing. È difficile immaginare pure le tecniche con cui una scelta di protezione radicale della neuro-privacy potrebbe essere messa in atto. Scorrendo l’elenco delle pubblicazioni di Yuste, si capisce a stento di che cosa parlino, perciò sarebbe necessaria una task force di specialisti di alto livello per bloccare questo genere di ricerche nei laboratori, qualora si decidesse di farlo.
La stessa decisione politica di bloccare questa ricerca è comunque condizionata dal cosiddetto dilemma di Collingridge, che già nel 1980 dimostrava che le conseguenze negative dell’innovazione tecnologica sono difficili da vedere e facili da regolamentare in una prima fase, mentre, con il trascorrere del tempo, dati gli investimenti e gli interessi massicci che generano, diventano sempre più facili da vedere e sempre più difficili da regolamentare. L’esperimento su Dolly aveva prodotto una sollevazione immediata, mentre quello su Gertrude non ha creato alcuno scandalo. Può essere che si sia già gravemente in ritardo anche su questo fronte, come lo siamo stati un paio d’anni fa quando ChatGPT ha mostrato il potere (e i rischi) dell’intelligenza artificiale.
Di fronte all’innovazione tecnologica sostenuta dal grande capitale, il diritto sembra impotente, anche se, in teoria, dispositivi giuridici quali il principio di precauzione sarebbero a disposizione per compiere scelte ponderate, fermando le innovazioni che non possano dimostrare la loro innocuità. È triste perciò riportare che, nulla avendo imparato dalla vicenda Eternit e della tobacco litigation sulla latenza dei danni, si sta proceduto alla garibaldina con rna modificato, tecnologie 5G, esperimenti sull’inseminazione delle nubi, automazione poco testata degli aeroplani Boeing e altre amenità.
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