Ariane 6 spazio
Space Economy

Perché lo spazio sarà cruciale nel piano di riarmo europeo

Articolo tratto dal numero di aprile 2025 di Forbes Italia. Abbonati!

C’è un’urgenza in Europa: è la prospettiva di un affrancamento (forzato) dalla difesa garantita per decenni dagli Stati Uniti d’America. “L’ombrello della Nato”, come lo chiamò Enrico Berlinguer in un’intervista rilasciata a Giampaolo Pansa, potrebbe chiudersi. Occorre aprirne un altro ed è sempre più evidente come lo spazio ne costituisca un meccanismo fondamentale.

Spazio e riarmo

L’iniziativa presentata da Ursula von der Leyen si chiama Rearm Europe: 800 miliardi con vincoli di spesa allentati rispetto al patto di stabilità. I singoli paesi avranno agio per investire nelle tecnologie della Difesa, che per molte aziende significa ‘Defence and Space’. Non è un caso che, subito dopo l’annuncio della presidente della Commissione europea, i titoli in Borsa di quelle stesse aziende siano schizzati verso l’alto: Thales +15%, Leonardo +15%, la britannica Bae Systems +17%, la tedesca Rheinmetall +14,4%, la francese Dassault Aviation +16,7%. Eutelsat ha addirittura raddoppiato il proprio valore.

I mercati sono lo specchio di ciò che l’economia si attende: uno tsunami di denaro (pubblico) per acquistare o approntare sistemi missilistici, aerei, carri armati, ma anche apparati satellitari e servizi di lancio. Uno dei nodi gordiani sta proprio qui: in orbita ci si impone occupando spazio, letteralmente (e purtroppo, perché le orbite circumterrestri non sono infinite e l’affollamento è un problema emergente). Ci si impone, perlopiù, con satelliti di sorveglianza e osservazione della Terra e con infrastrutture di comunicazione per servire le forze armate e le attività strategiche al suolo. L’Europa lancia poco, pochissimo: dallo spazioporto di Kourou, in Guyana francese, da cui l’Agenzia spaziale europea (Esa) fa partire le proprie missioni, nel 2024 sono decollati tre razzi: un Vega (ultima missione per il vettore dal cuore italiano di Avio), un Vega C e un Ariane 6, al debutto. Tanti quanti se ne staccano dalle rampe di SpaceX in una settimana.

La sfida delle costellazioni

L’Europa non è ancora riuscita a generare un’economia di scala nella produzione dei vettori spaziali, cosa che l’azienda di Musk si è invece garantita grazie alle commesse per il governo statunitense e, in particolare, al business in house: leggasi Starlink. La costellazione per la connettività a banda larga e bassa latenza di Musk beneficia di un’economia fondata sui tanti apparati in orbita e in procinto di arrivarci (al momento circa settemila quelli operativi) e sulla necessità di sostituire regolarmente quelli a fine vita. 

L’Unione non possiede una costellazione simile. Iris², quella che connetterà governi, ambasciate, forze armate e istituzioni pubbliche, sarà pronta non prima del 2030. Al momento, e qualora le divergenze con gli Stati Uniti diventassero insanabili, OneWeb è l’unica alternativa capace di garantire un’autonomia propriamente intesa. OneWeb, però, galleggia a circa 1.200 chilometri dalla Terra, cioè al doppio dell’altitudine di Starlink – significa trasmettere con una latenza maggiore -, e conta circa 650 satelliti, meno di un decimo della mega-costellazione di SpaceX. Che, appunto, sfrutta una filiera completa e gestita direttamente dall’azienda, forte di un ritmo di lancio a oggi senza eguali.

Ariane 6 e Vega C, secondo quanto dichiarato dall’Esa, che ne ha finanziato lo sviluppo, saranno capaci di decollare una volta al mese il primo e una volta ogni due il secondo. Quando, nel 2027, raggiungeranno la piena operatività, cumuleranno 18 lanci all’anno. Nel 2024 SpaceX ha effettuato 138 lanci (compresi i quattro test di Starship). Il confronto è impietoso.

I progetti europei

All’ultima Space Conference di Bruxelles, evento che ha riunito le istituzioni (Unione e Commissione europea, Esa, Euspa, Agenzia europea per la Difesa) e le più importanti sigle del settore, hanno presentato i propri progetti le principali aziende europee che stanno sviluppando lanciatori ‘leggeri’: Isar Aerospace, Rocket Factory Augsburg, HyImpulse, Pld Space, Maiaspace e Latitude. L’obiettivo è arrivare a disporre di “servizi di lancio europei innovativi” per “fornire opzioni competitive e affidabili per i clienti istituzionali e commerciali”.

Sarà una priorità. Perché la disponibilità di nuovi razzi per un accesso allo spazio che sia non solo autonomo ma tempestivo, ove occorra lanciare con celerità, diventerà una delle cifre con cui si misureranno potere e sovranità nel nuovo dominio operativo (militare). Soprattutto con satelliti leggeri, gli stessi che potrebbero costituire o integrare una prossima costellazione di comunicazione globale europea. Magari italiana.

Il ruolo dell’Italia

L’Italia non può permettersi di mancare fra i paesi protagonisti di questa accelerazione. Perché un’accelerazione è imposta. Secondo il rapporto Draghi, la Cina nel 2023 ha speso quanto tutta l’Europa per i programmi spaziali. E il 2024 dovrebbe aver sancito il sorpasso, con investimenti di circa 14 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti rimangono irraggiungibili, con una spesa complessiva di quasi 80 miliardi (25 solo alla Nasa).

Mentre queste righe vengono scritte, non è ancora chiaro quale porzione degli 800 miliardi sarà destinata agli apparati in orbita, ma sarebbe una mancanza grave non fosse ritenuto cruciale consolidarsi e diversificare il parco lanciatori, sfruttando un know-how come quello italiano, forte di grandi realtà e pmi di successo nel design e nella manifattura dei satelliti.

Nello sfruttamento civile dello spazio, l’ambito nel quale l’Europa ha davvero qualcosa da dire – con servizi come Copernicus e Galileo -, il nostro continente ha avuto successo perché ha saputo unire competenze e finanziamenti per realizzare eccellenza. Potrebbe essere il giusto seme dal quale far germogliare, finalmente, una Difesa comune. Come sempre lo spazio insegna.

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