L’Italia primeggia per qualità della ricerca e della tecnologia sviluppata. C’è un problema, però: è lenta nel trasformare i progetti in aziende, anzitutto per carenza di capitali investiti. Sulla base di questa consapevolezza, Jari Ognibeni e Matteo Elli nel 2017 hanno fondato Pariter partners, holding che investe – in fase early stage – in entrepreneurial scientist e società deep tech. A fine 2020, Pariter partners ha investito oltre 650mila euro in quattro società e ha promosso sulle proprie partecipate – attive nell’intelligenza artificiale, printed electronics, genomica, microbioma e internet of things – la raccolta di capitale da co-investitori per ulteriori complessivi 6,5 milioni di euro. I co-investitori sono i principali fondi di venture capital italiani ed esteri, family office e holding industriali.
Ma cosa si intende per deep tech? Partiamo da un esempio concreto: Moderna è stata un’azienda deep tech, perché puntò su una tecnica di sviluppo vaccinale avveniristica. “Le imprese deep tech spesso non hanno un prodotto che viene utilizzato oggi, poiché sono ancora in una fase di ricerca e sviluppo. Il deep tech è un punto di partenza strategico adottato per cambiare un mercato, e questo richiede un tempo di maturazione lungo. Lavorare sul deep tech significa trattare aziende o prodotti che fanno leva sulla scienza di frontiera”, spiegano Ognibeni e Elli (che rispondono congiuntamente alle domande di seguito).
Jari Ognibeni e Matteo Elli sono gli ospiti numero 17 di #Fattore R. Riscrivere per Rinascere.
Qualche esempio di aziende deep tech italiane di successo?
Al momento non sono ancora note realtà eclatanti come Moderna, però ci sono diverse aziende mature che hanno un angolo di sviluppo r&d deep tech. È il caso di Menarini, Angelini e Bracco per la farmaceutica, ma anche di Leonardo e STMicroelectronics.
Quanto all’Europa, Finlandia, Norvegia e Belgio hanno la più alta concentrazione relativa di aziende deep tech. Germania e Francia sono in testa per dimensione assoluta. L’Italia dove si colloca?
I nostri ricercatori nel 2020 sono stati i più premiati dal Consiglio europeo della ricerca. Secondo il Patent index 2020, con 4.600 brevetti presentati, l’Italia è ai primissimi posti. Per qualità della ricerca e della tecnologia sviluppata, siamo davvero in una posizione di leadership. Siamo però il fanalino di coda per la trasformazione dei progetti in aziende.
Spieghiamolo coi numeri.
Lasciando perdere gli Stati Uniti e la Cina, dove per il 2020 si stimano investimenti in deep tech di 33 e 20 miliardi di dollari rispettivamente, tra il 2015 e il 2020 il Regno Unito ha investito 12,6 miliardi, la Germania 5,4, la Francia 5. Finlandia, Belgio e Norvegia sono in cima alla classifica per quanto riguarda la percentuale destinata al deep tech: 37, 32 e 38%. La capacità del privato di supportare quanto sviluppato nei centri di ricerca è incredibile. Su questo noi dobbiamo ancora lavorare moltissimo.
Cosa fare per mettere le ali al deep tech di casa nostra?
Bisogna sostenere in maniera concreta gli entrepreneurial scientist, per metterli nella condizione di esprimere non solo il meglio della ricerca, ma il meglio del trasferimento della loro ricerca al mercato. Nonostante alcune università e centri di ricerca abbiano avviato programmi in questo senso, il mondo accademico sta facendo ancora molto poco, per una mancanza di modelli affidabili e di track record. Il tech transfer interno ai centri, fondamentale punto di contatto e supporto per i ricercatori in termini di brevetti, laboratori comuni con aziende, difesa della proprietà intellettuale, risulta un modello poco efficace per quanto riguarda la creazione di spin-off. Proprio per tale ragione, alcune delle principali università e centri di ricerca italiani si stanno affidando al nostro programma ScienceLab, per alimentare il trasferimento tecnologico e amplificare il supporto che gli stessi hanno modo di dare ai team di ricerca interni. Un altro tema, poi, è quello dei fondi. L’Italia è un paese dove la propensione al rischio è molto bassa, ma in questo campo è cruciale. Serve infatti più rischio nella fase early early stage, e maggior capacità di mettere capitale a perdere che può comunque portare alla creazione di aziende, e quindi al profitto. Qui il pubblico dovrebbe sostenere l’iniziativa privata e non sostituirsi al privato.
Avete menzionato ScienceLab. Cosa fa esattamente?
ScienceLab è il nostro programma di investimento dedicato ai centri di ricerca e agli entrepreneurial scientist. L’obiettivo è quello di entrare nei luoghi dove l’innovazione viene sviluppata. Affianchiamo i team in termini di trasferimento tecnologico, aiutandoli a dar vita alle imprese. Creiamo spinoff e le sosteniamo nel percorso di sviluppo, lavorando quotidianamente con i ricercatori sulla tecnologia identificata, definendo il modello di business più adatto, stimolando la capacità imprenditoriali del team e, infine, creando connessioni con le corporate e il mercato. Ovviamente, tutto questo a livello pre-company e sempre con l’obiettivo di investire in tali realtà. A oggi abbiamo oltre 50 ricercatori e otto progetti. Supportare queste iniziative richiede tempo e passione. Il capitale è una commodity, i modelli mutuati o copiati da altre realtà non servono se non sono accompagnati da un’attenzione e un vero amore per ciò che si fa. La differenza la fanno le persone e il sincero interesse verso il supporto a chi lavora nei laboratori. In questa fase non è l’interesse finanziario a guidare, ma la volontà di avere un impatto concreto sull’evoluzione del sistema paese.
È nato il primo Polo nazionale per il trasferimento tecnologico della robotica. Si chiama RobotIT e voi siete coinvolti: in che termini?
Siamo co-investitori e partner imprenditoriali. Da un lato siamo investitori nel veicolo di investimento RoboIT e, in aggiunta, co-investiremo nelle iniziative che diventeranno impresa, a valle di un primo periodo di sviluppo del prototipo in laboratorio. Svolgiamo l’attività di scouting dell’innovazione sviluppata dai team dei centri di ricerca e ne sosteniamo lo sviluppo affiancandoli con il modello sviluppato nell’ambito di ScienceLab. Con l’obiettivo, tra l’altro, di creare un ecosistema aperto che attragga co-investitori esteri.
Quanti progetti selezionerete?
Otto progetti l’anno, investendo fino a due milioni di euro.
Secondo la piattaforma olandese Dealroom, il 2021 è l’anno del deep tech. Che tendenza si prospetta per il prossimo biennio?
Un trend di grande crescita, perché ci troviamo in un’epoca unica a livello di sviluppo tecnologico. Nell’arco di 18-24 mesi potrebbero arrivare innovazioni che oggi non possiamo nemmeno immaginare. Negli ultimi cinque anni abbiamo capito che si possono realizzare soluzioni incredibili partendo da tecnologie di frontiera. La corsa è partita e non si fermerà più: ci sarà una crescita esponenziale. Questa è una sfida per il nostro Paese, che, muovendosi in maniera miope o difendendo i piccoli campanilismi, rischia di perdere una sfida strategica e fondamentale sul lungo periodo.
Quali sono, invece, le sfide per professionisti come voi?
Capire quali caratteristiche una tecnologia deve avere per soddisfare un’esigenza di mercato che oggi non è chiara, ma che verrà espressa solo nei prossimi anni. Si tratta di portare una tecnologia dal laboratorio al mercato, dialogando con tutti gli interlocutori, ancora una volta mercato e corporate, e, qualora ci fosse la necessità, avere la forza e la lungimiranza di modificare il progetto iniziale per renderlo realizzabile e in grado di rispondere a concrete necessità. Per comprendere l’applicazione e il potenziale bisogna avere una chiara idea dei trend tecnologici e dei cambiamenti che caratterizzeranno i prossimi 15-20 anni.
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