“La differenza fra Amsterdam e Roma? Avviare un’impresa e trovare chi è disposto a finanziarla qui è molto più semplice”. Riccardo Osti, romano, 36 anni, con la sua Wonderflow è l’esemplare perfetto di una nuova categoria imprenditoriale sempre più consistente e visibile: gli emigranti dell’innovazione, gli italiani che sono andati all’estero per fare startup e hanno avuto successo. Perché in patria gli investimenti sull’innovazione sono scarsi, perché la burocrazia distrae, perché il fisco opprime. Insomma, perché l’Italia non è ancora un Paese amico delle startup.
Wonderflow, fondata nel 2013, è una sentinella digitale che raccoglie tutto quel che si dice online di un prodotto, lo analizza e consiglia poi alle aziende che cosa fare per migliorare il gradimento. La startup, che ormai è una scaleup, ha già ottenuto quasi 25 milioni di investimenti (l’ultimo di 20 lo scorso giugno) e ha clienti che si chiamano Philips, Lavazza, Pirelli, Colgate Palmolive, DeLonghi.
Wonderflow è cresciuta ad Amsterdam per uno di quei casi della vita che sfuggono a ogni pianificazione. “Ho vissuto a Roma per 26 anni, ho studiato economia, ho cominciato a lavorare nel marketing e quando all’inizio dello scorso decennio facevo consulenza per la trasformazione digitale, molti imprenditori mi dicevano: ce l’ho già”, ricorda sorridendo Osti che, ancora under 30, decide di cambiare aria. Partecipa a un’iniziativa dedicata ai giovani talenti europei della provincia di Trento, città che è stata la culla di Wonderflow: lì conosce i cofondatori Giovanni Gallione e Michele Luini e lì non a caso c’è la sede italiana.
“Da Roma a Trento è stato un bel salto, ricordo che ho persino venduto l’auto”, racconta Osti. Ma l’ispirazione per il vero salto arriva con un viaggio ad Amsterdam. “Nel 2011 vado a trovare un amico imprenditore che stava partecipando a un programma di Rockstart, uno dei primi acceleratori europei di startup che fa anche investimenti. Vado a vedere il demoday, l’evento in cui le nuove imprese presentano i loro progetti, e lo trovo una figata. Penso: quando farò una startup voglio venire qui anche io. Ci provo nel 2014 e Wonderflow viene scelta fra 600 candidati”.
Inevitabile cominciare a notare le differenze con la patria. “Durante quel programma ho incontrato imprenditori che avevano quotato società al Nasdaq, gente con patrimoni importanti che mi ringraziava per il tempo che dedicavo loro, mentre in Italia sembrava che tutti ti facessero un favore ad ascoltarti”. Ad Amsterdam Wonderflow trova anche il primo cliente, e che cliente!
“La nostra idea era raccogliere i dati sulle opinioni e le recensioni dei clienti ma la sera prima del nostro demoday, ci diciamo: perché non facciamo anche l’analisi? Nottetempo modifico la presentazione e il giorno dopo, appena finisco, un manager di Philips mi avvicina: se fate anche l’analisi dei dati, a noi interessa. In due settimane abbiamo completato la prima versione di wonderboard, il pannello per la gestione dei dati dei clienti. E dopo è venuto il primo pilot con Philips, con il quartier generale: nel 2017 eravamo l’unico provider globale di customer analytics. Poteva accadere solo stando in Olanda”.
La lavagna delle meraviglie si inserisce in un trend forte del marketing, che fra gli addetti ai lavori è conosciuto con l’acronimo Kyc, know your customer, conosci il tuo cliente. È quello che permette di fare Wonderflow con il suo modello di analisi predittiva basato sulla voce dei clienti. Ottiene in pochi minuti quel che prima richiedeva settimane di lavoro e con lo stesso livello di accuratezza. “Le recensioni dei siti di e-commerce, le conversazioni sui social, i dati in possesso del customer care raccolti attraverso i call center, Twitter, le chat messi in unico posto e analizzati con software di intelligenza artificiale diventano grafici, approfondimenti e raccomandazioni che dicono all’azienda che cosa cambiare per andare incontro alle richieste dei clienti. Per l’elettronica di consumo finora nessuna società al mondo è in grado di dare con la stessa precisione il sentiment dei clienti come fa Wonderflow”, dice con orgoglio Osti, che porta anche un esempio: “Philips aveva un’aspirapolvere di cui le persone si lamentavano perché il filtro era difficile da pulire. È stato ridisegnato, ha vinto premi di design e nella sua categoria è diventato quello meglio recensito su Amazon”.
Wonderflow adesso è un’azienda che cresce del 100% anno su anno, nel 2022 conta di sbarcare nel Nord America e di raddoppiare le 70 persone del team: 40 sono a Trento, dove si fa ricerca e sviluppo. Quindi qualcosa di buono in Italia c’è? “Ad Amsterdam è difficile consolidare un team, costruire una cultura aziendale, perché gli sviluppatori vengono a lavorare da te per andare via dopo un anno. Però in Olanda quando apri una startup non devi pensare al notaio o alle tasse da pagare: per i primi due anni niente bilancio e dichiarazione dei redditi, mentre in Italia il commercialista diventa il tuo miglior amico”. Questa sembra la vera differenza: nelle prima fasi di vita dell’impresa puoi concentrarti davvero sul progetto e sul team. “Anche perché non hai limiti: puoi assumere persone che arrivano da qualsiasi parte del mondo senza problemi di visti, perché l’azienda si iscrive a un registro speciale, paga una cifra e diventa sponsor dello straniero. La differenza l’ho sperimentata personalmente: mia moglie è albanese e fa la consulente. Quando è arrivata in Olanda, si è presentata in azienda e dopo quattro giorni le hanno dato il visto. Nel novembre 2020 ci siamo spostati a Milano, dove adesso abbiamo casa con nostro figlio, e ancora non ha il permesso di soggiorno”.
Ma quando l’imprenditore Osti si mette ai fornelli non c’è più confronto. “Mi piace molto cucinare e ad Amsterdam invito spesso amici a cui propongo piatti italiani. Quello che mi riesce meglio è il couscous con il polpo, che è il preferito di mia moglie. Ma, visto che sono romano, faccio anche una carbonara come si deve”.
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