“Per una vita le persone sono state abituate a ritirare i soldi in banca, allo sportello, dove un impiegato faceva firmare la distinta. Poi, circa 40 anni fa, hanno iniziato a prelevare da una macchinetta, quasi in mezzo alla strada. Ho provato a mettermi nei loro panni e a immaginare quanto deve essere stata strana la prima volta. E allora mi sono convinto che, in confronto, il passaggio dai contanti al digitale non è poi così radicale”. Oscar Occhipinti, direttore marketing e commerciale di Bancomat, inquadra così la trasformazione in atto nel mondo dei pagamenti. Un cambiamento dimostrato, per esempio, dall’uso sempre più frequente delle carte anche per piccole somme. “Da gennaio a oggi”, spiega Occhipinti, “i pagamenti con carta per cifre inferiori ai cinque euro sono passati dall’1,5% al 3,7%, anche grazie all’azzeramento delle commissioni alle banche che abbiamo promosso. È un incremento significativo, perché ci fa capire che sempre meno persone ‘si vergognano’ di tirare fuori la carta anche per piccoli importi”.
Bancomat, nata nel 1983, conta oggi 120 banche socie e, con 34 milioni di carte, è la società dei circuiti di pagamento e prelievo più diffusi in Italia. Dal 2018 a oggi ha potuto raccogliere i dati relativi a circa dieci miliardi di operazioni. Un patrimonio che ha spinto la società a nuovi investimenti per valorizzare la sua piattaforma di business intelligence. Dal prossimo anno sarà infatti possibile consultare e analizzare in modo rapido le informazioni raccolte dal circuito su questioni come l’uso delle carte, il progresso della rete di accettazione, lo scambio di denaro e i pagamenti.
Perché avete scelto di investire sui big data?
“Innanzitutto, vogliamo favorire lo scambio di informazioni con le banche aderenti. Permetteremo loro di osservare in tempo reale fenomeni che, altrimenti, sarebbero stati difficili da intercettare. Gli istituti soci potranno, per esempio, decidere quale indirizzo dare ai loro servizi o individuare funzionalità per migliorare i prodotti. L’altro obiettivo è offrire al mercato una panoramica sempre aggiornata sul nuovo corso digitale dell’Italia, di cui i pagamenti sono un aspetto cruciale. Questa mole di dati potrà essere utile all’intero sistema-Paese e alla pubblica amministrazione. Era giusto investire sui big data perché si tratta di una fonte di informazione che sgombra il campo dalle opinioni. E poi perché i dati raccontano storie a chi sa leggerli”.
Qualche esempio di queste storie?
“La maggior parte delle spese, di norma, avviene nei centri delle grandi città, nelle zone del turismo e del divertimento. Durante i lockdown, quando gli spostamenti erano limitati, abbiamo registrato invece un aumento delle transazioni nelle periferie. Oppure, abbiamo visto i prelievi calare per mesi, per poi risalire però a novembre, a ridosso del Black Friday. Abbiamo osservato che negli ultimi due anni i prelievi sono diventati meno numerosi, perché molti si sono abituati all’uso di strumenti digitali, ma che al contempo gli importi sono aumentati. Segno che, per via delle chiusure, tante persone si sono ritrovate con più risparmi. Ci si può spingere poi anche ad analisi più complesse e studiare, per esempio, quali categorie merceologiche si sono aperte di più al digitale negli ultimi mesi. I dati raccontano tutto questo: sono uno specchio di quello che succede nel mondo”.
Quando si parla di dati, si pone il problema della sicurezza e della riservatezza. Voi come lo affrontate?
“Negli ultimi anni si è parlato molto dell’ingresso di soggetti esteri nel mercato delle infrastrutture. Molti erano preoccupati all’idea che i dati potessero lasciare l’Italia. La questione si pone allo stesso modo anche nel campo dei pagamenti. Noi siamo 100% italiani, perciò possiamo garantire che tutti i dati generati sul nostro circuito rimangano in Italia. Per noi la sicurezza è sempre stata una questione fondamentale: siamo stati i primi a introdurre il pin invece della sola firma. Il nostro livello di frodi è di una per ogni milione di operazioni. In generale, credo che in quasi 40 anni siamo riusciti a creare una percezione di sicurezza intorno all’azienda. Non a caso, quando abbiamo portato da 25 a 50 euro la cifra per la quale è necessario inserire il pin, le persone si sono fidate e l’incidenza dei pagamenti contactless è salita al 50%”.
Con la cosiddetta ‘smaterializzazione’, cioè l’abbandono delle carte fisiche a favore di smartphone e app, che cosa cambierà?
“I dati diventeranno ancora più importanti, se non altro perché se ne genereranno molti di più. Una carta fornisce informazioni limitate: chi ha speso, quanto, dove, quando. Un’app può dire molto di più: come il cliente naviga al suo interno, quali servizi usa di più e tanto altro. Se, dopo avere ricevuto il consenso dell’utente, si raccolgono questi dati, è possibile migliorare l’app stessa e andare incontro al cliente”.
Molti sostengono che il principale ostacolo alla digitalizzazione in Italia sia la mancanza di una cultura digitale. Voi che cosa fate per colmare questa lacuna?
“Tra le altre cose, abbiamo una cattedra alla facoltà di economia della Luiss, che ci permette di far capire ai ragazzi che cosa c’è dietro il pagamento elettronico. È un’iniziativa che si è dimostrata utile non solo agli studenti, ma anche a noi, perché ci ha fatto capire che cosa si aspettano i giovani da un metodo di pagamento: rapidità, sicurezza, efficacia. Ci siamo resi conto che alcuni aspetti della user experience del servizio bancario per i ragazzi sono ormai inconcepibili. A partire dalla necessità di andare di persona in filiale per alcune operazioni”.
L’altra faccia del mondo dei pagamenti è quella degli esercenti. Come vi state muovendo su quel fronte?
“In parallelo agli sforzi per convincere i consumatori, abbiamo avviato attività di educazione al digitale anche per i commercianti. Cerchiamo di illustrare loro come funzionano i diversi strumenti e quali sono i vantaggi. Inoltre, lavoriamo per trovare accordi con i maggiori esercenti e per portare il nostro Bancomat Pay sui principali rivenditori digitali”.
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