Alcuni brand di auto prima sono spariti, poi sono tornati. Hyundai, Suzuki, Mitsubishi, Toyota, Nissan, Mazda. Aziende giapponesi che hanno partecipato alle sanzioni. Ma diversi modelli sono riapparsi nei concessionari russi, racconta un analista di Finam, banca d’investimento con sede a Mosca. È un mercato parallelo, un contrabbando oggi approvato e benedetto dal ministero dell’Industria e del commercio. All’inizio della guerra, appena scattate le sanzioni occidentali, il Cremlino ha preso delle contromisure, legalizzando un sistema di importazioni parallele: è stata abolita la responsabilità penale e amministrativa per l’importazione di prodotti senza l’autorizzazione del detentore del copyright. Canali poco limpidi, con cui la Russia cerca di reagire all’isolamento.
Il caso dell’Iran
Ogni mese, secondo calcoli del governo, il contrabbando potrebbe far affluire fino a 2 miliardi di dollari di merce (quindi ben oltre 20 miliardi nel 2022). Altre analisi danno numeri inferiori: secondo Finam, i beni pirata non superano 1,5 miliardi di dollari al mese. Tanto, ma sicuramente non abbastanza per tenere in piedi l’intera economia: è da ricordare che nel 2021 la Russia ha importato beni per 304 miliardi di dollari -. Alla lunga, deterioramento e perdita di efficienza sono inevitabili. Tuttavia il mercato sotterraneo può essere sorprendentemente efficace.
Ne sa qualcosa l’Iran, che da anni vive sotto sanzioni e ha imparato ad aggirarle. Ecco una prova: la Russia, nei suoi raid contro le infrastrutture ucraine, sta usando abbondantemente i droni kamikaze di produzione iraniana – rudimentali, ma insidiosi, anche perché molto economici -. Analizzando questi apparecchi si è scoperto che sono pieni di componenti americane, inclusi i microchip, malgrado l’Iran sia uno dei paesi più sanzionati della Terra.
Le tre vie di Putin
In definitiva, il futuro economico della Russia dipende dalla capacità di produrre rapidamente alternative ai beni stranieri a cui non può più accedere. Ci sono tre strade davanti e sono tutte piuttosto impervie. La prima è quella di affidarsi di più a paesi amici, come la Cina. Xi Jinping e Putin, del resto, si erano giurati “amicizia senza limiti”. Ed è vero che, con la guerra, hanno rafforzato i loro legami economici. Mentre si chiudeva il mercato europeo, la Russia ha trovato nuovi sbocchi per gas e petrolio: la Cina, ma anche l’India, hanno aumentato tantissimo gli acquisti. E nel caso di Pechino sono cresciute anche le esportazioni nel mercato russo. Ma per alcune componenti strategiche l’amico cinese non è così affidabile. La priorità di Xi è sempre la sicurezza nazionale, cioè rafforzare la Cina nello scontro con gli Usa. Per questo ha bloccato le esportazioni di alcuni suoi microchip, in questo momento necessari all’industria militare, malgrado fossero un’alternativa ai chip americani che la Russia avrà sempre più difficoltà ad acquistare.
La seconda strada è produrre internamente ciò che non arriva più dall’estero. Autarchia, insomma. Quanto è praticabile? È vero che l’economia russa ha dimostrato una notevole capacità di resistenza, ma su un punto era sguarnita: la sua industria dipende molto da tecnologia straniera, spesso occidentale. Rimpiazzarla è complicato. A volte è possibile, altre no, e quasi sempre c’è una perdita di efficienza. È difficile trovare un’industria in Russia che non dipenda dalle importazioni per almeno il 50% degli input, afferma Elina Ribakova, economista presso l’Institute of International Finance.
Alcuni settori sono più a rischio di altri. Quelli ‘super critici’, a detta del governo, sono la costruzione di aeroplani, la tecnologia farmaceutica e medica, la produzione di microchip e apparecchiature informatiche di alto livello e la tecnologia per costruire veicoli spaziali. Sono le difficoltà che incontra una moderna economia quando non può più importare molte delle componenti, delle tecnologie e delle materie prime da cui dipende. A riguardo, i dati dei partner commerciali mostrano che le importazioni russe sono diminuite del 20-25% dall’inizio della guerra. Un trauma, se sei incorporato da anni nel commercio globale.
I maghi del contrabbando
Per certi versi è come tornare all’epoca sovietica. E come ai tempi dell’Urss, il terzo modo per sopravvivere è rappresentato da spionaggio e contrabbando. Redditizio, quest’ultimo, ma instabile e imprevedibile, un commercio su cui alla fine l’economia assediata faticherà a fare affidamento. Redditizio per un numero crescente di specialisti, maghi nel trovare scappatoie e muovere di soppiatto le merci attraverso le dogane. Ecco come funziona. Lo racconta un certo Stanislav al Financial Times. Stanislav è un uomo russo di una quarantina d’anni. Per lui la guerra ha rappresentato un affare, le sanzioni una prateria di nuove opportunità. Compra la merce tramite società di facciata costituite in Europa. La merce viaggia sui camion dall’Unione europea a uno dei paesi dell’ex Unione Sovietica che condividono accordi doganali con la Russia, spesso Kazakistan e Armenia.
Qualsiasi marchio che ha lasciato la Russia, dai vestiti all’alcool e agli elettrodomestici, in qualche modo viene importato. E si stanno rivolgendo a lui anche diversi uffici dall’amministrazione statale. Due camere di commercio – una in Siberia, l’altra nella Russia centrale – domandano a contrabbandieri come Stanislav la merce straniera colpita dall’embargo. Ma il flusso non è regolare, ci sono imprevisti e colli di bottiglia che rallentano il commercio o lo bloccano del tutto. Il clinker, il componente base del cemento, è sparito da giugno. “Nessuno sa più come importarlo”. Alla fine si troveranno dei modi, quasi certamente, per aggirare l’ostacolo. Però la strada del contrabbando rende il materiale più costoso e quindi disponibile solo per ordini di fascia alta.
“Sarà così per 15 anni”
Kirill è un altro russo che si muove in questa zona grigia. Con la guerra ha aperto un’attività di contrabbando specializzata in mobili e infissi. Racconta che uno degli schemi più comuni per le importazioni parallele è lavorare con un’azienda che ha già rapporti di business con un marchio occidentale. Questa società comincia a piazzare ordini in volumi molto maggiori. Dietro, spiega Kirill, c’è un compratore russo, che paga per importare l’eccedenza. Una volta giunta in Kazakistan, la merce è al sicuro, perché da lì alla Russia non ci sono frontiere doganali. Però non tutte le merci sono uguali e alcune sono più complicate da reperire. In particolare microchip e server, dice un dirigente di un’azienda tecnologica russa.
I produttori oggi sono anche più diffidenti. Si insospettiscono, mangiano la foglia se un cliente all’improvviso comincia a ordinare volumi molto maggiori. Alcune società americane, afferma il dirigente russo, hanno interrotto le vendite in Armenia o Kazakistan, ormai hub notori di importazioni parallele. Oppure chiedono di verificare su Zoom se l’ufficio esiste davvero e ha bisogno di tutto quel materiale. Questi aggiramenti sono costosi, anche quando hanno successo. I chip americani più diffusi entrano clandestinamente al doppio del prezzo di mercato. Vale la pena pagare solo se le sanzioni non durano troppo. Cosa improbabile. “Sarà così per i prossimi 15 anni, a meno che lui non muoia prima”, dice rassegnato un oligarca sotto sanzioni. E per “lui”, ovviamente, intende Vladimir Putin.
I problemi della Cina
Cosa fare allora? Le aziende russe, secondo gli analisti, alla lunga finiranno per ripiegare su microchip cinesi di qualità inferiore. Ma tutto ciò accade quando gli Stati Uniti sono impegnati a tarpare le ali a un concorrente ben più pericoloso della Russia: la Cina, appunto. Il 7 ottobre Joe Biden ha annunciato i più radicali controlli all’export degli ultimi decenni. Nuove regole che tagliano fuori le aziende cinesi da chip per l’intelligenza artificiale, software per progettare chip avanzati e macchine per produrli, tutte tecnologie all’avanguardia di origine americana. Ed è così che si incrinano le amicizie, anche quelle senza limiti: messa alle strette, la Cina ha deciso di tenere per sé alcuni dei suoi microchip migliori, destinandoli all’industria militare e bloccando le vendite all’estero, anche alla Russia. La notizia l’ha data per primo il quotidiano di Mosca Kommersant. I chip il cui export sarà vietato sono quelli con micro-architettura LoongArch, i primi totalmente made in China, indipendenti da qualsiasi tecnologia estera.
Va detto che in Russia i LoongArch sono usati ancora piuttosto raramente. Nella produzione destinata al mercato interno, continuano le fonti di Kommersant, è molto più facile e sicuro usare chip Intel, “di cui nel mondo c’è disponibilità enorme, miliardi di unità”. Ma la tecnologia cinese, sebbene inferiore a quella americana, era considerata comunque una discreta alternativa. Avendoli già testati con successo, alcune società russe ritenevano i sistemi LoongArch “affidabili, promettenti e, in prospettiva, in grado di competere con Amd e Intel”. La Cina, però, ha tolto questo salvagente.
Cosa fare adesso? La Russia potrebbe imbarcarsi nella produzione interna: strada impervia, avverte un alto dirigente di una società tecnologica di Mosca. E tremendamente costosa. Potrebbero volerci 50 miliardi di dollari l’anno per dieci anni, sostiene il dirigente, per portare la Russia allo stesso livello dei cinesi come capacità di produrre microchip. Una montagna di soldi che la Russia non ha. E non è detto che spendere quelle cifre garantisca il successo. L’operazione potrebbe fallire.
Arrangiarsi o evolvere
Per un corso pratico di sopravvivenza trasferiamoci in una grande fabbrica di trattori e altri macchinari pesanti sulle rive del Volga, a est di Mosca. Appena scattate le sanzioni occidentali, il capo della fabbrica – la Cheboksary Power Machinery Plant – ha radunato il suo team attorno a un foglio di carta. Ha cominciato a disegnare la mappa delle attività e delle catene di approvvigionamento. Alcune linee di prodotti, troppo dipendenti dalle parti occidentali, dovevano essere sospese. Su altre cose il team ha trovato rimedi fai da te. Il settore dei trattori, caposaldo dell’azienda, non poteva essere dismesso. La società così si è ingegnata a creare microchip con cui sostituire quelli importati. In qualche modo sono arrivate nuove componenti da altre fonti e gli ingegneri le hanno saldate. I trattori funzionavano.
Per altri materiali l’azienda ha trovato alternative domestiche, o quasi. C’era il problema delle parti di alcuni montacarichi. Gli amici bielorussi, paese alleato stretto di Mosca, hanno spedito i motori per rimpiazzare quelli provenienti dal Giappone. Anche in questo casi i montacarichi – tutto sommato – funzionavano. “Certo, i motori di Minsk sono più rumorosi, più cari e meno affidabili. Ma sono disponibili. Noi ci siamo abituati, i nostri clienti si sono abituati”, ha detto il capo dell’azienda al Financial Times. Ma lo stesso manager si è reso conto dell’inesorabile piega declinante. Arrangiarsi è una cosa, evolversi un’altra.
La Russia, gregario povero della Cina
Non ci sono dubbi che il blocco alle importazioni avrà un impatto negativo: l’azienda sfornerà prodotti di qualità e tecnologia inferiori, e allo stesso tempo più cari. La sua merce un tempo era considerata di prezzo medio, oggi – con le sanzioni – si è spostata in una fascia di mercato più alta. E lo stesso effetto si fa sentire ovunque: dalle banche all’agricoltura, fino all’estrazione di risorse energetiche. “Magari sarai ancora in grado di produrre, ma lo farai in modo più costoso, perché sarai inefficiente”, spiega Ribakova, l’economista dell’Institute of International Finance. Ecco che il Paese rischia una spirale di regresso tecnologico.
C’è da dire, però, che poteva andare molto peggio. La previsioni più infauste sottoposte a Putin dai migliori tecnocrati russi non si sono verificate. All’inizio della guerra, con l’economia assediata dalle sanzioni, temevano l’apocalisse. Un crollo del 30% del Pil in due anni. La recessione invece è stata più blanda: ci si aspetta tra il 3,5 e il 5,5% nel 2022 e qualcosa di simile nel 2023. La Russia spedisce più petrolio verso Cina e India. Ne vende meno, ma grazie ai prezzi alti gli incassi sono comunque di tutto rispetto. È probabile che l’economia si barcameni, pur incespicando. Ma a che prezzo? Lo zar voleva rendere la Russia great again. Invece gli tocca il ruolo di gregario povero della Cina.
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