Le versioni di Ai si stanno rincorrendo e ci lasciano storditi. Si sta annunciando, ad esempio, D-Id, la prossima ChatGPT in formato umano digitale, con un viso, toni di voce, espressioni facciali, dettagli della postura. Tutto a nostra immagine e somiglianza, perché, come i cartoni animati della Disney imparavano dagli attori in carne e ossa a muoversi e ad acquisire fluidità nei movimenti, così nuovi avatar imparano da noi attori sociali intonazioni, espressioni emotive, comunicazione non verbale, attraverso machine learning che raccolgono dati espressivi per poi restituirceli.
La proprietà della voce
Il tema del diritto dell’immagine e della voce, allora, non riguarda più solo i personaggi pubblici. In un mondo digitale che punta all’estrema personalizzazione dell’esperienza calata in mondi paralleli, la nostra voce e la nostra immagine rischiano di perdere la loro intimità e il diritto alla proprietà. Si stanno facendo riflessioni su cosa debba essere oggetto di tutela e su come questa tutela possa essere esercitata. Considerando quanto la voce individui l’identità di una persona (pensiamo ad esempio al bambino o all’anziano che trovano nel riconoscimento della voce del caregiver la più grande consolazione e un fondamentale elemento di cura) è chiaro quanto questa rappresenti un patrimonio anche familiare.
Differenze tra voce e immagine
La tutela giuridica della voce presenta aspetti peculiari. “Indubbiamente la voce è un’espressione della personalità dell’individuo e per effetto potrebbe teoricamente essere fatta rientrare nell’art. 10 del codice civile, che però riguarda espressamente solo l’immagine di una persona”, spiega Simona Cazzaniga, dello Studio Legale Sutti, citando un articolo dedicato soprattutto a proteggere la reputazione di una persona o dei suoi congiunti (pensiamo, ad esempio, ai tanti meme ormai strumento di comunicazione virale).
“Per anni, la giurisprudenza ha ribadito che la legge non prevede una tutela della voce della persona – contrariamente a quanto accade per il nome o per l’immagine – perché mentre il ritratto di una persona permette di identificare senza alcuna difficoltà un individuo, con la voce la stessa operazione non è altrettanto facile”. Tuttavia Cazzaniga riporta alcuni casi di giurisprudenza in cui è la voce a essere protagonista di tutela. Il caratteristico modo di utilizzare la voce di un giornalista sportivo, per esempio, ha portato i giudici ad applicare le norme sul diritto all’immagine.
Il caso di Giovanni Paolo II
Un altro episodio riguarda invece Papa Karol Wojtyla: “Giovanni Paolo II”, racconta l’avvocato, “in un’udienza pubblica del 1996 aveva modulato una frase con una soavità tale da farla somigliare a un motivo musicale. Così al dj Joe T. Vannelli venne l’idea di creare un brano strumentale con la voce del pontefice in sottofondo. La proposta sembrò inizialmente piacere alla direzione di Radio Vaticana tanto da indurre Vannelli a stampare 500 cd della canzone intitolata Forgive us. La trattativa però non andò a buon fine. Per errore, tuttavia, la canzone finì a fare da tappeto musicale per una sfilata di moda trasmessa da Canale 5. Il Vaticano reagì con la richiesta al Tribunale di Milano di un provvedimento d’urgenza che costò a Vannelli un risarcimento di 20 milioni di lire e il macero dei cd rimasti”.
Se un tempo erano i personaggi famosi a rischiare di veder lesa l’integrità della loro immagine, oggi che ognuno di noi è personaggio pubblico il tema va attualizzato e le norme aggiornate, nel rispetto dell’equilibrio tra nuove forme espressive e strumenti di servizio.
La voce come capacità distintiva
Nel diritto industriale l’espressione ‘capacità distintiva’ è da sempre utilizzata per indicare i requisiti di validità di un brand (insieme alla novità e alla liceità): possono essere registrati come marchi – e così attribuire e registrare diritti di monopolio per il loro utilizzo – parole, loghi e anche caratteristiche come un colore, un movimento, un posizionamento, un suono, una forma e persino un odore, se sono dotati di capacità distintiva, se cioè permettono di collegare un prodotto o un servizio contraddistinto da un certo marchio a un’azienda ben precisa. In questo senso la voce è un suono con sue particolari frequenze: esistono oggi strumentazioni in grado di identificare le specifiche frequenze di una voce come fosse un’impronta digitale.
La voce ha poi una specifica tutela attraverso la legge sul diritto d’autore (L. 633/1941), ma solo per artisti, interpreti ed esecutori. Come tutti i diritti di natura personale, è un diritto inalienabile, irrinunciabile, non trasferibile. Non serve alcuna brevettazione, registrazione ed è tutelabile in tutto il mondo senza limiti territoriali.
Le possibilità di abuso
“Gli illeciti relativi all’utilizzo non autorizzato della voce di qualcuno implicano comunque che quella voce sia riconoscibile e riconducibile/attribuibile a una persona precisa”, ricorda Cazzaniga. “Alla luce dello scenario normativo di cui sopra, il fenomeno dell’utilizzo illecito della voce altrui è amplificato dal fatto che oggi la tecnologia permetta facilmente di generare artificialmente attraverso tecniche di deepfake il timbro e le altre caratteristiche, come pronuncia, accento e inflessione, di qualsiasi voce personale. Ciò che rende oggi preoccupante la questione del diritto alla voce non sta nella possibilità che qualcuno imiti la voce altrui e ne abusi, e nemmeno in quella di provare che quella voce sia o meno originale, ma nella disponibilità di tecnologie perfettamente in grado di imparare e replicare la voce di qualcuno a livelli di perfezione elevatissimi”.
La possibilità di abusi, allora, “diventa tanto maggiore quanto minori sono il costo e la difficoltà tecnica di clonare una voce altrui per servirsene a scopi commerciali o, peggio ancora, per diffondere false informazioni. Si pensi all’utilizzo per fare propaganda politica e terroristica, per sfruttare speculazioni in Borsa e per molti altri obiettivi facilmente immaginabili. Ed è chiaro che al crescere delle capacità generative dei software di intelligenza artificiale e al diminuire del loro costo, questo genere di eventi non faranno che aumentare”.
La difficoltà di tracciare le informazioni
Più che l’esistenza di norme, quello che rende il tema particolarmente delicato è la velocità di trasmissione delle informazioni dei dati, la loro improvvisa decontestualizzazione e la confusione nei confini di competenza.
“Proprio la difficoltà di risalire al soggetto autore dell’illecito o del reato e/o la difficoltà di individuare quale sia l’autorità giudiziaria competente per assumere provvedimenti idonei a bloccarne la diffusione, per altro chiaramente anche al di fuori dei confini nazionali, è naturalmente aggravata dalla rapidità con cui i contenuti multimediali e/o il software che li ha generati possano essere ceduti e spostati con un click più volte da un Paese a un altro nel giro di minuti”. Bisogna quindi chiedersi se sarà necessario utilizzare i nuovi strumenti di tracciabilità dell’origine anche per i nostri dati espressivi per non perderne il controllo.
Gli Nft
Dati espressivi, blockchain e arte (dunque diritto d’autore) sono sempre più intrecciati. Secondo Federico Pecoraro di Chainblock, i Non fungible token potrebbero essere utilizzati per tutelare i propri dati espressivi. “L’utilità di creare un Nft della propria voce potrebbe essere quella di creare un’opera d’arte o un prodotto digitale unico che rappresenti la voce dell’artista. Ci sono molte ragioni per cui qualcuno potrebbe voler creare un Nft della propria voce. Ad esempio, per creare un’esperienza di ascolto esclusiva per i fan o per dimostrare la propria abilità vocale in un formato digitale unico e inimitabile”.
Per quanto riguarda le frequenze slegate dal contenuto, “ci sono tecniche di elaborazione del segnale che consentono di estrarre le caratteristiche acustiche della voce, come il timbro e la tonalità, senza rivelare il contenuto effettivo delle parole pronunciate. Ad esempio, la tecnica chiamata ‘analisi dei formanti’ può essere utilizzata per estrarre le frequenze risonanti della voce senza considerare il contenuto delle parole pronunciate. Ciò consente di creare un Nft che rappresenta le caratteristiche acustiche uniche della voce dell’artista, senza rivelare il contenuto”.
Secondo Pecoraro, “un Nft può essere utilizzato per creare un registro digitale immutabile e unico per un’opera d’arte o un prodotto digitale che rappresenta la voce di una persona. Ciò può aiutare a garantire che la voce non venga utilizzata senza il consenso della persona. Inoltre, gli Nft offrono anche la possibilità di monitorare l’uso della voce e di ricevere una parte dei guadagni derivanti dall’uso commerciale della stessa”.
Le opere d’arte digitali
Ci sono però ancora da considerare le implicazioni legali e le sfide tecnologiche associate all’utilizzo degli Nft. Dato che oggi le nuove tecnologie permettono di intrecciare opere d’arte digitali con la raccolta di micro-espressioni facciali del pubblico, si pone il problema della proprietà di questi dati. “Per quanto riguarda l’utilizzo degli Nft, i dati raccolti da un’opera d’arte digitale che registra le espressioni facciali appartengono di solito al proprietario dell’opera stessa. Tuttavia, ciò può variare a seconda delle condizioni contrattuali e delle politiche di privacy dell’opera d’arte digitale in questione. In ogni caso, è importante leggere attentamente le condizioni d’uso prima di acquistare o utilizzare un’opera d’arte digitale che registra le espressioni facciali”.
Resta però aperto il problema di opere d’arte digitali urbane, una tendenza che spesso mette in connessione artisti, istituzioni e marketing. Si pongono così questioni ulteriori questioni di privacy (qualcuno ha già ideato abiti che confondono gli algoritmi per catturare l’immagine della persona).
Ma la domanda forse più delicata e importante, visto il continuo richiamo che se ne fa in considerazione della libertà che concede, è: cos’è l’arte? Quando possiamo dirci artisti? A chi spetta dare queste definizioni?
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