Articolo tratto dal numero di agosto 2024 di Forbes Italia. Abbonati!
Nel giugno del 2006 si svolse, all’Accademia Nazionale dei Lincei, un convegno di studio per presentare il cosiddetto ‘Conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche’. Il documento, esito di uno sforzo conoscitivo del ministero dell’Economia, serviva a stimare e valorizzare, attraverso criteri di contabilità internazionali, gli asset pubblici, ossia i beni in proprietà del popolo italiano. La razionalizzazione era benvenuta perché, allora come oggi, si aveva un’idea davvero vaga di quali fossero e quanto valessero le ricchezze del Paese. Dall’Unità in poi, l’Italia si è dotata di un patrimonio pubblico che ancora oggi è fra i più ingenti d’Europa, ma, come un nobile ora decaduto (il 16 marzo del 1991, superando il Pil della Francia, l’Italia divenne la quarta economia del mondo), ne ignora l’entità e lo stato di salute.
Fra immobili in stato di semiabbandono (tutta la proprietà fondiaria che non appartiene o non appartiene più a nessuno è dello Stato), dipinti e altre opere d’arte dimenticati nelle cantine dei musei, caserme dismesse, asset strategici come le grandi reti autostradali, o il lido del mare, o lo spettro delle frequenze concesse a prezzo vile a privati, case popolari in degrado, brevetti esito di ricerca pubblica sfruttati da privati, non si può certo dire che il pubblico sia un amministratore migliore del vecchio, adorabile Conte Rostov descritto da Tolstoj, intento a procurare la rovina del suo nobile casato.
La commissione del 2006
Il convegno linceo raccoglieva principalmente economisti e giuristi. Era la prima volta, dopo 15 anni di celebrazione a senso unico delle privatizzazioni intervenute dopo la caduta del Muro di Berlino (da soli, i governi tecnici dei primi anni ‘90 privatizzarono asset per circa 150 miliardi), in cui emerse una riflessione critica seria su quelle svendite. La mala amministrazione pubblica di alcuni asset durante la Prima Repubblica aveva offerto una ghiotta occasione a privati in cerca di facili rendite, convincendo il ceto politico di quanto fosse conveniente dismettere e privatizzare (su questo punto Prodi, Berlusconi, Monti, Draghi e tutti gli altri hanno agito come un sol uomo).
In quel clima culturale cominciava a emergere il timore che, dopo le dismissioni quanto meno discutibili di Iri e dei settori bancari e assicurativi, il conto patrimoniale fosse il preludio a una nuova ondata di privatizzazioni selvagge. I giuristi presenti, fra cui Angelo Falzea, Pietro Rescigno, Giuseppe Guarino e Giovanni Conso, raccomandarono di non intraprendere una nuova stagione di vendite senza prima dotarsi di regole giuridiche rinnovate e forti, capaci di governare questi processi nell’interesse pubblico e non in quello degli acquirenti, come era avvenuto, a favore degli oligarchi, nell’ex Unione Sovietica di Gaidar e Eltsin.
La legge mai discussa
In effetti, le vecchie regole del codice civile sulla disciplina di demanio e patrimonio pubblico, risalenti addirittura al Codice Napoleonico, sono strutturalmente incapaci di porre limiti alle svendite, perché i governanti pro tempore possono, proprio come i proprietari privati, vendere a capriccio i beni pubblici, anche per sopperire a bisogni di spesa corrente (tipo pagare interessi sul debito).
Da quella giornata di studi prese le mosse la proposta di riformare radicalmente la disciplina dei beni pubblici del Codice civile (Titolo II del Libro III), per evitarne dismissioni affrettate e incompatibili con il pubblico interesse. Nel 2007 il compito fu assegnato a una commissione ministeriale, la Commissione Rodotà, dal nome del suo presidente. Dopo quasi un anno di lavori, articolati su 11 riunioni plenarie e sei riunioni speciali di segreteria scientifica, la commissione produsse un disegno di legge delega, noto per aver contenuto la prima definizione giuridica di beni comuni (recepita poi dal dibattito internazionale e dalla Corte di cassazione). Il ddl fu subito abbandonato e, sebbene ripresentato anche come legge di iniziativa popolare, non venne mai discusso.
La rete Tim e Ita
In conseguenza di questo atteggiamento trasversale, dopo 18 anni ci ritroviamo con lo stesso apparato normativo inefficace e obsoleto, ma molto più poveri e, soprattutto, di fronte a un salto di qualità preoccupante, testimonial del quale è la soddisfazione di Giorgetti a fronte del closing nella (s)vendita dell’intera infrastruttura della Tim. La proprietà dell’ex monopolista pubblico è stata acquisita da un fondo speculativo statunitense, Kkr, le cui strategie sono istituzionalmente dettate dal generale David Petraeus, già comandante delle truppe Usa in Afghanistan e Iraq, nonché ex direttore della Cia. I beni oggetto della proprietà dismessa, per una cifra fra i 18 e i 22 miliardi di euro (a seconda di contingenze) sono l’intera rete, ossia la struttura primaria e secondaria delle linee telefoniche e dei cavi di fibra ottica per la trasmissione dei dati in Italia.
Le nostre telecomunicazioni nazionali sono così, dalla data del closing, proprietà privata di una società statunitense (a dir poco vicina alla Cia). Proprio come Ita (ex Alitalia) è passata ai tedeschi di Lufthansa, alla quale sarà interamente ceduta la partecipazione azionaria del ministero entro il 2033, a un prezzo complessivo inferiore al miliardo. La principale dote di Ita, esito della lunga e penosa vicenda della dismissione di Alitalia, sono beni pubblici come gli slot aeroportuali, in particolare quelli fra Milano e Roma.
Che cosa sono i beni pubblici sovrani
Nella tassonomia proposta dalla Commissione Rodotà, i beni oggetto delle due vicende sono “ad appartenenza pubblica necessaria”, o “beni pubblici sovrani”, a causa della loro rilevanza politico-economica e geopolitica. Si legge nella relazione di accompagnamento della Commissione Rodotà che queste tipologie di beni soddisfano “interessi generali fondamentali la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali. Si tratta di interessi quali ad esempio la sicurezza, l’ordine pubblico, la libera circolazione… per essi è prevista una disciplina rafforzata”. La commissione immaginava forme di inalienabilità sostanziale, rispetto a quella oggi formale dei beni demaniali, che possono essere facilmente ‘sdemanializzaziati’ per decreto ministeriale.
In altri termini, per la Commissione Rodotà beni come le grandi infrastrutture della comunicazione virtuale e fisica non avrebbero potuto che appartenere a uno Stato che volesse mantenere il controllo sovrano sul proprio territorio. Questi “beni ad appartenenza pubblica necessaria” sono diversi dai “beni comuni” (che, come i beni culturali, possono essere anche in proprietà privata), perché possono appartenere solo allo Stato e agli enti territoriali. E sono diversi anche dai “beni pubblici sociali” (ospedali, scuole, asili, case di riposo, etc.), fondamentali per uno Stato (come l’Italia) vincolato costituzionalmente all’inclusione sociale, ma che in uno Stato privo di questo vincolo costituzionale (per esempio gli Stati Uniti) possono anche essere interamente in proprietà privata.
Sembra così essere iniziata una stagione di privatizzazione dei beni pubblici sovrani (nel 2022 lo spettro delle frequenze 5G era stato venduto per circa 6,5 miliardi) che meriterebbe ben più che qualche trafiletto nelle pagine economiche dei giornali. In gioco non ci sono solo miliardi di euro (pochi, se comparati ai 78,65 miliardi annui di servizio sul debito). Sono in causa, in tempo di guerra, le condizioni materiali dell’autodeterminazione dell’Italia rispetto al proprio territorio.
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