di Alberto Bruschini
Agli inizi degli anni 50 la la visione del futuro, ottimistica e propositiva, spinse il protagonismo delle piccole e medie imprese nel decollo e nella stabilizzazione del made in Italy in molti paesi europei. Con tale visione l’impresa manifatturiera è riuscita a mantenere un’agguerrita competitività sul mercato internazionale superando tre crisi economiche gravi: la crisi petrolifera degli anni settanta, quella finanziaria degli anni 2008 -2012 e quella pandemica degli anni 2000.
Fino all’ingresso dell’euro nel 2002 il fattore trainante della competitività si è basato sulle svalutazioni competitive. Successivamente su un costo del lavoro inferiore a quello rilevato nei principali competitor esteri e sulla frammentazione produttiva a danno della produttività. Dopo la pandemia le richieste mondiali di cambiamento dell’economia si sono fatte più energiche. Di fronte alla polverizzazione dell’apparato produttivo costituito per il 95% da micro imprese (4.134.960) e alla concentrazione del restante comparto in imprese di dimensione inadeguata non possiamo continuare a cullarci sugli allori.
Il settore manifatturiero
Nel 2021 il settore manifatturiero era così segmentato: da 0-9 persone con numero di 365.790 imprese; da 10-49 persone con un numero di 196.855 imprese, da 50-249 persone con un numero di 24.526 imprese; da oltre 250 persone con un numero di 4.292 imprese. Se si tiene conto che le imprese da 50-249 persone non superano i 50 milioni di euro di fatturato e i 43 milioni di euro di attivo e che nel 2021 per esempio il sistema moda contava 61.000 imprese, con fatturato di 93 mld di cui all’export 68 mld di euro e 545.000 addetti, ci si rende conto della fragilità del nostro sistema manifatturiero.
La presa di coscienza dell’emergenza climatica, della digitalizzazione distribuita, dell’intelligenza artificiale e della sostenibilità dei prodotti finiti o intermedi sta rendendo ancora più crescente la necessità di mettere le mani sulla composizione del nostro sistema produttivo, ma anche di quello europeo.
Al passo dell’innovazione
La transizione energetica e le nuove tecnologie per diventare realtà richiedono un vastissimo ventaglio di competenze, di innovazione, di programmazione, di formazione, di incentivi pubblici e di strumenti finanziari idonei. Per affrontare la profonda trasformazione economica in atto, accelerata dalle strategie politiche e commerciali di Trump, si rendente indispensabile in Italia, ma anche in Europa, tornare alla crescita del Pil legata a quella della produttività.
La composizione del nostro apparato produttivo caratterizzato dal nanismo delle imprese, financo quelle industriali nel confronto con i paesi più avanzati, costituisce un limite oggettivo alla crescita della produttività. La retorica del piccolo e bello e lo scarso dinamismo delle imprese di minore dimensione attenuano l’innovazione, la formazione di economia di scala, l’avanzamento tecnologico della produttività, diminuita di più di 20 punti negli ultimi venti anni rispetto alla Germania.
Tornare alla crescita implica da un lato il superamento della diffidenza degli imprenditori a porsi il problema della dimensione delle piccole e medie imprese e dall’altro l’adozione di un’azione mirata della politica economica capace di creare un habitat che riproponga negli imprenditori quella visione positiva del futuro che pare essersi persa.
Una visione del futuro ottimista, data la complessità del cambiamento in atto, non può che essere sostenuta in un quadro di riferimento che disegni un percorso simile a un new deal in cui venga affrontato sia il riassetto del sistema industriale anche europeo, che la debolezza della domanda interna.
Strumenti finanziari nazionali ed europei per le imprese
Un processo di tale natura non potrà essere conseguito senza una massa critica di intervento di risorse finanziarie nazionali ed europee. Non si tratta di appellarsi alla consueta, ma inefficace, messa a disposizione di un rilevante ammontare di presiti a protratta scadenza.
Senza l’intervento di strumenti finanziari nazionali ed europei, alternativi al finanziamento bancario, non sussistono le condizioni per favorire sia i nuovi investimenti tecnologici che quei processi indispensabili di aggregazione, di acquisizioni, di joint venture tra le piccole e medie imprese per conseguire una dimensione adeguata, indispensabile ad accrescere la produttività e il prodotto interno lordo. Sia in Italia che in Europa c’è abbondanza di risparmio finanziario privato e di organismi strutturati che gestiscono il risparmio. Sussiste invece un profondo disinteresse nell’ investire questo risparmio nelle attività produttive.
Si preferisce privilegiare la rendita finanziaria. In un’epoca di grandi cambiamenti tale impostazione avrà i giorni contatti se la politica italiana e europea continuerà a confinare gli interventi economici alla razionalizzazione dell’esistente. È la produzione industriale che regge la crescita del prodotto interno dei paesi e non l’accumulazione per l’accumulazione delle rendite finanziarie. Non giova a questi fini neppure il recente rinnovo del patto di stabilità che mantiene un rigore di bilancio alla Hayek, mentre sarebbe necessario un rigore di bilancio alla Keynes.
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