È di pochi giorni fa l’uscita di un libro, Fire and Fury di Michael Wolff, che ha fatto tremare la Casa Bianca, rivelando le presunte molteplici incapacità al comando del presidente Usa. Un libro – e le sterminate file fuori dalle librerie per comprarlo – riuscirà paradossalmente a fare quello che i giornali, i tweet, le campagne politiche non hanno potuto fare, ovvero contrastare Trump? La questione è aperta. Quello che resta è l’idea di un’America incredula e disorientata allo stesso tempo. E ce lo conferma Nicola Lagioia. A partire dall’uscita in America del suo La ferocia, lo scrittore e direttore del Salone del Libro di Torino di recente ha fatto un tour oltreoceano e ne ha riportato impressioni e commenti a caldo. Ispirato dalle sue riflessioni sulla cultura americana in declino, e alle cronache dei suoi incontri con persone e luoghi, ForbesITALIA ha parlato con l’autore non solo del suo romanzo “americano” appena uscito per Europa Editions, ma anche dello spazio creativo della narrativa statunitense, dei festival Usa in rapporto al nostro mondo, di Faulkner e del ruolo della traduzione nella promozione della narrativa italiana. Con qualche parola sul prossimo Salone 2018.
Ho seguito con grande interesse le tue cronache dall’America, scritte online in occasione del tour di presentazione de La ferocia, il tuo romanzo vincitore dello Strega 2016, uscito questo autunno in traduzione inglese (Ferocity, Europa Editions, traduzione di Antony Shugaar). Che impressione ti hanno fatto gli States dell’era Trump? Che atmosfera si respira? Ricordo persino un tuo aneddoto abbastanza rivelatorio al riguardo, dove cercavi di far capire ad un auditorio apparentemente sordo i parallelismi tra Berlusconi e The Donald.
Ero a Chicago – dove Obama ha insegnato diritto costituzionale – davanti a un pubblico di democratici. Li ho invitati a guardare all’Italia come a un laboratorio politico e sociale che a volte anticipa ciò che accade nel resto del mondo. Siamo un paese dalla cultura millenaria, ma sempre in ritardo rispetto ai nostri omologhi. Non siamo quasi mai pronti ad affrontare i cambiamenti, e quando questi si presentano è come se inciampassimo in avanti. Così facendo, rischiamo di vedere il futuro prima degli altri. L’incontro ritardato con la modernità sul piano artistico fece nascere in Italia le prime avanguardie (il futurismo arriva prima di dadaismo e surrealismo) ma su quello politico il risultato fu il fascismo, il cui know how abbiamo esportato quasi ovunque. L’incontro ritardato con la post-modernità ha prodotto Berlusconi, che ben prima di Trump ha incarnato la figura del miliardario con un’opinione sproporzionata di sé, che a un certo punto decide di buttarsi in politica e ce la fa. Ma quando racconti a un pubblico di democratici che (invertendo la celebre citazione di Marx) ciò che accade in Italia come farsa può ripetersi per la seconda volta nel mondo come tragedia, può capitare che si sentano feriti nel loro patriottismo. Noi abbiamo il problema opposto: l’auto-denigrazione è il nostro patriottismo.
Gli Stati Uniti di Trump sono un paese ancora molto forte e sorprendente, ma per certi versi anche un paese in difficoltà. Gli statunitensi sono certi di poter fare a meno degli altri. I reazionari ne sono convinti per atto di fede, e in un certo senso sono più rispettabili di quei progressisti che si interessano poco a ciò che accade oltre i propri confini, convinti di essere al contrario animati da un vero cosmopolitismo. Da questo punto di vista sono più aperti i sudamericani. L’incontro tra diverse i culture è stata la vera forza degli Usa, ora quella spinta sembra essere più debole.
La ferocia svela una storia famigliare molto italiana: Salvemini è un uomo tutto sommato della sua terra, tipicamente “nostro”, ciononostante il romanzo riesce a universalizzare la Puglia che descrivi. Sono chiari i legami con un certo tipo di cinema americano (penserei persino a Lynch, fin dalla prima scena del tuo personaggio di Clara) e soprattutto con il tuo amore indiscusso, William Faulkner (un autore che ha troppo pochi estimatori in Italia, a mio avviso), specie nel lavoro sulla lingua e sulla costruzione narrativa. C’è un “tuo” Faulkner di oggi in America? E pensi sia cambiato qualcosa del tuo amore per quell’autore?
William Faulkner è stato uno dei più grandi scrittori degli ultimi cento anni. Ha insegnato a raccontare il sud, e su questo è stato determinante per molte generazioni di autori successivi. García Márquez raccontò più di una volta che trovò la sua strada di scrittore dopo aver letto Luce d’agosto e Mentre morivo. Senza la contea di Yoknapatawpha non ci sarebbe stata Macondo. Ma non ci sarebbero stati nemmeno i mondi di Cortázar e di Rushdie. Faulkner nel Novecento è stato lo scrittore del sud almeno quanto Kafka lo è stato per il nord. Faulkner ha preso il modernismo europeo e l’ha portato in Mississippi. Come vedi, i ponti tra Europa e America (come ha dimostrato più di recente Roberto Bolaño) sono sempre salutari per entrambi i continenti. Al di là dei vertici espressivi – ma in realtà le due cose sono profondamente legate – nessuno come Faulkner è stato capace di far sentire ad esempio in modo così straziante la perdita dell’innocenza. Come lui, forse, soltanto Malcolm Lowry.
Tu hai fatto parte di quella nouvelle vague italiana di scrittori, curatori e traduttori di base a Roma che per prima ha portato in Italia i giovani postmoderni – o meglio post-post-moderni o avant-pop (in primis ovviamente penso a David Foster Wallace e mi riferisco al lavoro dell’editore minimum fax). Che fine ha fatto quella tradizione creativa e più sperimentale in America? Sei del parere che la vena propulsiva della letteratura americana si sia infranta sugli scogli del famigerato Grande Romanzo Americano?
La tradizione postmoderna mi sembra finita da molto tempo. Occidente per principianti, che pubblicai nel 2004, è già una messa funebre del postmoderno. Scherzando una volta dissi che un certo postmoderno sembra una sorta di marxismo senza escatologia: incredibilmente dettagliato nel produrre una diagnosi, e penosamente incapace di indicare una via d’uscita. Al postmoderno è mancata la profondità, la consapevolezza che ogni labirinto nasconde molte botole, e dunque la capacità di addentrarsi nel mondo infero che non faceva paura a Melville, a Lovecraft, a Henry Roth, al già citato Lowry, e men che meno a Balzac, Flaubert, De Roberto, Malaparte, e tanti altri su diverse latitudini. Negli anni ’90, tra postmoderno da un lato (da Dfw a DeLillo) a realismo dall’altro (da Philip Roth a Cormac McCarthy), gli Stati Uniti hanno avuto l’ultima grande stagione della loro letteratura. Dopo l’11 settembre mi sembra sia successo molto poco, con alcune eccezioni di alto livello. Ad esempio Marilynne Robinson, che a me pare attualmente la più potente voce della narrativa americana di questi anni.
Per ritornare un attimo sulla Ferocia, che effetto ti ha fatto vederla tradurre in America? Quali sono state le prime reazioni del lettore americano che hai raccolto?
Il viaggio in America di Ferocity è stato molto bello. E anche il mio viaggio al seguito del libro è stata un’esperienza intensa. Da San Francisco a Calgary, da là a Vancouver, poi Toronto, Chicago, Iowa City, Baltimora, New York… I responsabili di Europa Editions, il mio editore negli Stati Uniti, Canada e Uk, sono stati bravissimi. Il romanzo ha ricevuto molta attenzione. Il The Guardian ne ha parlato molto bene, il New York Times lo ha attaccato, la Los Angeles Review of Books e il Financial Times ne hanno fatto recensioni entusiastiche, e di nuovo nel Vecchio continente, è finito sullo Spectator. La fama del romanzo è arrivata fino in Scozia, dove il Sunday Herald lo ha eletto come uno dei libri dell’anno. Insomma, cosa rara per uno scrittore europeo, Ferocity è esistito davvero nel mondo anglofono, ha generato un dibattito. La mia parte residuale che ancora soffre il complesso degli Stati Uniti ne è uscita gratificata.
Seguiamo la tua carriera arricchita anche per il tuo recente incarico di direttore del Salone del Libro di Torino. Hai fatto rinascere uno spirito molto più festivaliero in una fiera che era spesso appiattita all’idea di vendita all’ingrosso, dove si faticava a vedere editoria indipendente e proposte pensate e strutturare verso un dibattito culturale. Sempre legato al tuo tour americano, mi piacerebbe che tu mi parlassi del pubblico che hai incontrato, degli eventi ai quali hai partecipato, degli incontri con gli scrittori e i direttori di festival dall’altra parte dell’oceano: cosa importeresti, e cosa invece è a tuo avviso un’eccellenza italiana?
Gli Stati Uniti, più avanti di noi sotto molti aspetti, non lo sono rispetto ai festival e alle fiere editoriali. Su questo piano, l’Europa ha ancora molto da insegnare. Non credo esista un corrispettivo statunitense di festival cinematografici come quelli di Cannes e di Venezia, e di fiere editoriali come quelle di Francoforte e di Torino. Certo, hanno l’Academy, ma gli Oscar svolgono un ruolo molto diverso rispetto alla Palma o al Leone d’oro.
A conclusione: puoi darci qualche anticipazione del prossimo Salone, magari legata a una delle questioni che abbiamo affrontato nelle precedenti domande?
Il prossimo Salone spero riesca a compiere l’impresa di cui si è reso protagonista nel 2017: cioè quella di essere un grosso evento, capace di spostare centinaia di migliaia di persone, gestito però non come una vetrina editoriale ma come un laboratorio, un esperimento continuo, un luogo di esperienza. Chiunque ci sia stato l’anno scorso ha percepito qualcosa che raramente accade in queste manifestazioni: noi stiamo lavorando come matti perché succeda ancora.
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