di Parmy Olson – articolo tratto dall’edizione di ottobre di Forbes Magazine
Il cofondatore di WhatsApp Brian Acton, 46 anni, è seduto in un caffè dello scintillante Four Seasons di Palo Alto, California, e l’unica cosa che potrebbe farti pensare che ha 3,6 miliardi di dollari è la mancia di 20 dollari che lascia in modo spiccio dopo aver bevuto il caffè. Di costituzione robusta e con indosso un cappellino da baseball e una t-shirt di un evento corporate di WhatsApp, è determinato a evitare i “contro” della ricchezza e sbriga da solo le sue commissioni, tra cui l’aver portato il suo furgoncino a riparare qualche mese fa. Gli è appena arrivato un sms dal suo rivenditore Honda di fiducia che annuncia “pagamento ricevuto”. Lo indica sullo schermo del telefono. “Questo è ciò che volevo che le persone facessero con WhatsApp”, dice del più grande servizio di messaggistica mondiale, usato da più di 1,5 miliardi di persone e celebre per offrire agli utenti messaggi crittati senza pubblicità. “Era una cosa utile, informativa”.
I tempi verbali al passato e la malinconia aleggiano nell’aria. Più di quattro anni fa, Acton e il suo cofondatore Jan Koum hanno venduto WhatsApp, che aveva un fatturato relativamente insignificante, a Facebook per 22 miliardi di dollari, una delle acquisizioni più sbalorditive del secolo.
Dieci mesi fa ha lasciato Facebook, dicendo di volersi dedicare a una no-profit. Poi a marzo, quando iniziavano a filtrare i dettagli dell’affaire Cambridge Analytica, ha inviato un tweet diventato rapidamente virale che ha sconvolto i suoi ex datori di lavoro, quelli che l’hanno reso milionario: “It is time. #deletefacebook”. Nessuna spiegazione è seguita, e da allora non ha più twittato nient’altro.
It is time. #deletefacebook
— Brian Acton (@brianacton) 20 marzo 2018
Ora è pronto a parlare in pubblico per la prima volta. Sotto pressione da parte di Mark Zuckerberg e Sheryl Sandberg per monetizzare WhatsApp, ha resistito quando Facebook ha messo a repentaglio il suo sistema crittografato per mostrare annunci mirati e facilitare i messaggi promozionali.
Acton si è allontanato da Facebook un anno prima di riscuotere la sua tranche finale di azioni della società. “Ho detto, ok, volete farmi fare queste cose che non voglio fare”, ricorda Acton, “ed è meglio che mi levi di torno. E così ho fatto”. Si è trattato forse dell’obiezione di coscienza più costosa della storia. Acton ha fatto uno screenshot del prezzo delle azioni nel momento in cui se ne stava andando: la decisione gli è costata 850 milioni di dollari.
Oggi sta seguendo imperativi morali molto simili. Chiaramente non apprezza i riflettori che questa storia gli porterà, e si affretta a sottolineare che Facebook “non è il cattivo della storia” (“penso a loro semplicemente come ad affaristi molto capaci”). Ma ha pagato caramente il suo diritto a dire ciò che pensava. “Come parte di una soluzione proposta alla fine delle trattative, il [management di Facebook] ha provato a mettere sul piatto un accordo di non divulgazione”, dice Acton. “Questo è stato uno dei motivi per cui mi sono fatto prendere dall’ansia di mettere le cose a posto con loro”.
Facebook è con ogni probabilità la compagnia più sotto esame del pianeta, che nel contempo controlla la sua immagine e le informazioni interne con una spietatezza da Cremlino. “Grazie agli sforzi senza sosta del team nello sviluppare nuove feature, WhatsApp ora è una parte fondamentale della vita di più di un miliardo di persone, e guardiamo al futuro con eccitazione” ha spiegato un rappresentante di Facebook.
Una risposta che maschera gli stessi problemi che hanno appena portato i fondatori di Instagram a cambiare aria all’improvviso. Kevin Systrom e Mike Krieger stando ai resoconti non sopportavano la mano pesante di Facebook e Zuckerberg. La testimonianza di Acton su ciò che è successo a WhatsApp – e i piani di Facebook in merito – restituisce una rara finestra sul ruolo di un fondatore all’interno di una compagnia che è a un tempo un arbitro globale degli standard di privacy e spartiacque dei fatti, mentre si allontana sempre di più dalle sue radici imprenditoriali.
Si tratta anche di una storia in cui ogni imprenditore pieno di ideali può immedesimarsi: cosa capita quando riesci a creare qualcosa di incredibile e poi lo vendi a qualcuno con idee molto diverse per la tua creatura? “Alla fine della fiera, ho venduto la mia compagnia”, spiega Acton. “Ho venduto la privacy dei miei utenti per un vantaggio più ampio. Ho scelto il compromesso, e devo farci i conti tutti i giorni”.
Nonostante una compravendita da diversi miliardi di dollari, Acton dice di non aver mai avuto un vero rapporto con Zuckerberg. “Non potrei dirti molto di lui”, spiega. In uno delle loro dozzine di meeting, Zuck ha detto ad Acton, senza troppi romanticismi, che WhatsApp (che aveva un certo grado concordato di autonomia nell’universo di Facebook, e per un po’ ha continuato a operare nel suo quartier generale precedente) per lui era “un prodotto del gruppo, come Instagram”.
Per cui Acton non sapeva cosa aspettarsi quando Zuck lo scorso settembre l’ha chiamato nel suo ufficio, più o meno quando Acton ha detto ai pezzi grossi di Facebook che intendeva andarsene. Acton e Koum avevano una clausola nel loro contratto che gli permetteva di ottenere tutto il loro stock, spalmato su quattro anni, se Facebook avesse iniziato a “implementare iniziative di monetizzazione” senza il loro consenso.
Ad Acton è sembrato semplice invocare questa clausola. D’altronde l’accoppiamento Facebook-WhatsApp era stato un grattacapo fin dall’inizio. Facebook ha uno dei network pubblicitari più grandi del mondo; Koum e Acton odiano le inserzioni. Il valore aggiunto di Facebook per i pubblicitari risiede in quanto sa dei suoi utenti; i fondatori di WhatsApp erano fanatici della privacy che pensavano che il loro lodato crittaggio fosse stato parte integrante di una crescita globale senza precedenti”.
La dissonanza frustrava Zuckerberg. Facebook, spiega Acton, aveva deciso di estrarre denaro da WhatsApp in due modi. Per cominciare, mostrando annunci mirati nella nuova funzione Status, cosa che Acton vedeva come una sorta di rottura del patto siglato coi suoi utenti. “Il targeted advertising è ciò che mi rende insoddisfatto”, dice. Il suo motto a WhatsApp era stato “No ad, no giochini, no trucchi”: un contrasto evidente con una parent company che ricava il 98% del suo fatturato dalla pubblicità. Un altro motto era stato “prenditi il tempo e fai le cose per bene”, agli antipodi rispetto a Move fast and break things.
Facebook voleva anche vendere alle imprese strumenti per interloquire con gli utenti di WhatsApp. Una volta che le aziende sarebbero state a bordo, Facebook sperava di vendere loro anche strumenti analitici. La sfida era rappresentata dall’impermeabile cifratura end-to-end di WhatsApp, che impediva tanto a WhatsApp quanto a Facebook di leggere i messaggi. Per quanto Facebook non avesse nei suoi piani di rimuovere il crittaggio, dice Acton, i suoi manager “sondavano” metodi per offrire alle imprese insight analitici sugli utenti di WhatsApp in un ambiente cifrato.
I piani di Facebook rimangono poco chiari. Quando a settembre i politici americani hanno chiesto a Sandberg, la coo di Facebook, se WhatsApp usasse ancora la cifratura end-to-end, lei non ha risposto direttamente sì o no, spiegando: “Crediamo fermamente nel crittaggio”. Un portavoce di WhatsApp ha confermato che l’app l’anno prossimo inizierà a posizionare annunci nella sua sezione Status, ma aggiungendo che anche se diverse imprese inizieranno a interagire con le persone sulla piattaforma, “i messaggi rimarranno crittati. Non esiste alcuna intenzione di cambiarlo”.
Da parte sua, Acton aveva proposto un modello di monetizzazione basato sulla misurazione dell’attività degli utenti, che addebitasse, diciamo, un decimo di penny dopo un certo numero elevato di messaggi gratuiti. “L’hai costruito una volta e per tutte, funziona dappertutto, in ogni Paese”, spiega Acton. “Non hai bisogno di una forza vendita sofisticata: è un business molto semplice”.
Il piano di Acton è stato azzoppato da Sandberg. “Le sue parole sono state «non è replicabile in scala»”.
“Una volta l’ho chiamata”, dice Acton, che ha percepito che potesse essere una questione di cupidigia. “Le dicevo: «No, non vuoi dire che non è scalabile, intendi che non porterà tanti soldi quanto…” e lei ha iniziato a esitare. E siamo passati oltre. Credo di essermi spiegato… Loro sono affaristi, buoni affaristi. Solo che rappresentano una gamma di pratiche, principi, etiche e policy con cui non sono necessariamente d’accordo”.
Quando Acton ha raggiunto l’ufficio di Zuckerberg, ad attenderlo c’era un avvocato di Facebook. Acton ha spiegato che la diversità di vedute – Facebook voleva fare soldi attraverso le ad, lui preferiva usare i grandi volumi di utenza – significava che poteva mettere le mani sulla sua quota di azioni. Il team legale di Facebook non era d’accordo, e ha risposto che WhatsApp aveva solo iniziato a esplorare ipotesi di monetizzazione, non le aveva “implementate”. Zuckerberg, da parte sua, aveva un messaggio semplice: “Era come se mi stesse dicendo «questa è con ogni probabilità l’ultima volta che parlerai con me»”.
Invece di ricorrere a sua volta agli avvocati o incontrarsi a metà strada, Acton ha deciso di non lottare in quel modo. “In fondo, ho venduto”, spiega, “sono uno che si è svenduto. Lo riconosco”.
Gli imperativi morali di Acton – o forse la sua ingenuità, visto che un prezzo di vendita di 22 miliardi di dollari avrebbe dovuto metterlo sull’attenti – risalgono alle matriarche della sua famiglia. Sua nonna aveva fondato un golf club in Michigan; sua madre ha avviato un’attività di spedizioni nel 1985, insegnandogli a prendere molto seriamente le responsabilità di un imprenditore. “Non dormiva la notte scervellandosi per pagare gli stipendi”, Acton ha detto a Forbes appena prima della compravendita.
Acton si è laureato a Stanford in ingegneria informatica ed è diventato uno dei primi dipendenti di Yahoo nel 1996, facendo i milioni nel frattempo. Il suo miglior asset del periodo a Yahoo? Diventare amico di Koum, un immigrato di origine ucraina con cui andava d’accordo e con cui condivideva un atteggiamento pragmatico. “Siamo entrambi nerd e smanettoni”, Acton ricordava in quell’intervista passata. “Andavamo a sciare insieme, giocavamo a Ultimate Frisbee e a calcio insieme”. Acton ha lasciato Yahoo nel 2007 per viaggiare, prima di tornare in Silicon Valley e, ironia della sorte, fare un colloquio da Facebook. Non è andata bene, per cui si è unito a Koum nella sua startup appena avviata, WhatsApp, convincendo un manipolo di ex colleghi di Yahoo a investire nel round in seed mentre lui assumeva il ruolo di cofondatore e si assicurava il 20% delle quote.
I due conducevano l’impresa in modi a loro congeniali, secondo il principio di cassa, con un’attenzione ossessiva per l’integrità della loro infrastruttura. “Un singolo messaggio è come il tuo primo figlio”, diceva Acton. “Non potremmo mai abbandonarlo”. Mark Zuckerberg ha contattato Koum per la prima volta via email, ad aprile del 2012, il che ha portato a un pranzo da Esther’s German Bakery a Los Altos. Koum ha mostrato l’email ad Acton, che l’ha incoraggiato a incontrare Zuck. “Non avevamo in programma di vendere”, ricorda oggi. “Non avevamo alcuna strada da seguire”. Ma due fattori hanno generato la mega-offerta di Zuckerberg all’inizio del 2014. Uno è stato apprendere che i fondatori di WhatsApp erano stati invitati da Google nel suo quartier generale di Mountain View; un altro è stato un documento che analizzava la valutazione di WhatsApp, compilato da Michael Grimes di Morgan Stanley, che qualcuno ha mostrato agli esperti di acquisizioni di Facebook e Google.
La più grande compravendita del settore internet del decennio è stata ultimata in fretta e furia durante il weekend di San Valentino negli uffici dei legali di WhatsApp. Non c’era tempo di passare in rassegna dettagli come la clausola riguardante la monetizzazione. “Eravamo lì io e Jan a dire che non volevamo inserire pubblicità nel prodotto, tutto qua” dice Acton. Ricorda che Zuckerberg dimostrava “sostegno” ai piani di WhatsApp di implementare il crittaggio, anche se ciò avrebbe bloccato i tentativi di raccogliere i dati degli utenti. Al contrario, era “rapido nel rispondere” durante le discussioni. Zuckerberg “non valutava con immediatezza le conseguenze nel lungo periodo”.
Mettere in dubbio le vere intenzioni di Zuckerberg non era la cosa più facile del mondo, dato che stava offrendo una cifra che era diventata 22 miliardi di dollari. “È arrivato da noi con tantissimi soldi e ci ha fatto un’offerta che non potevamo rifiutare”, dice Acton. Il fondatore di Facebook ha anche promesso a Koum un posto nel board, ha riempito i fondatori di parole di ammirazione e, secondo una fonte che ha preso parte agli incontri, ha detto loro che non avrebbero avuto “alcuna pressione” ad aumentare i ricavi nei cinque anni seguenti. Facebook, si è scoperto poi, voleva muoversi molto più velocemente. I segnali d’allarme sono emersi anche prima della chiusura dell’accordo di quel novembre. La compravendita doveva passare la famigerata scure dell’antitrust europea, e Facebook ha istruito Acton per affrontare una dozzina di rappresentanti della commissione per la concorrenza dell’UE in teleconferenza. “Mi hanno detto di dire che sarebbe stato molto difficile unire o mescolare i dati dei due sistemi”, dice Acton. E così ha detto ai regolatori, aggiungendo che né lui né Koum avevano intenzione di farlo.
In seguito ha appreso che altrove a Facebook c’erano “piani e tecnologie per mischiare i dati”. Nello specifico, Facebook poteva usare la stringa di numeri a 128-bit assegnata a ogni telefono come una specie di ponte tra gli account. L’altro metodo era collegare il telefono al numero di telefono, o trovare un account Facebook legato a un numero di telefono e collegarlo a un account WhatsApp con lo stesso numero.
Nel giro di 18 mesi, i nuovi termini d’uso di WhatsApp avevano collegato gli account, e fatto fare la figura del bugiardo ad Acton. “Credo che tutti facessero finta di niente perché pensavano che l’Unione Europea si fosse dimenticata di tutto, dato che era passato un po’ di tempo”. Sfortunatamente no: Facebook ha finito per pagare una multa da 122 milioni di dollari per aver dato “informazioni false o fuorvianti” all’Unione Europea (un costo di esercizio, dato che l’affare è andato a compimento e la connessione tra account continua ancora oggi, per quanto non in Europa). “Gli errori che abbiamo fatto nelle nostre dichiarazioni del 2014 non sono stati intenzionali”, risponde un rappresentante di Facebook.
“Il solo riportarlo alla mente mi irrita”, spiega Acton.
Collegare questi account corrispondenti è stato un primo passo fondamentale verso la monetizzazione di WhatsApp. L’aggiornamento dei termini del servizio ha posto le basi per lo sviluppo dei metodi di monetizzazione di WhatsApp. Durante le discussioni riguardanti questi cambiamenti, Facebook ha cercato “diritti più ampi” sull’utilizzo dei dati degli utenti di WhatsApp, dice Acton, ma i fondatori del servizio hanno resistito, scendendo a compromessi con il management di Menlo Park.
È rimasta una clausola sull’assenza di ads, ma Facebook avrebbe continuato a collegare gli account per presentare suggerimenti di amicizia su Facebook e offrire ai suoi partner pubblicitari profili mirati per la reclamizzazione. WhatsApp sarebbe stato l’input, e Facebook l’output. Acton e Koum, che hanno passato ore aiutando a riscrivere i termini del servizio, erano frustrati da una sezione della messaggistica per le imprese. “Siamo diventati ossessionati da questi due paragrafi”, ricorda Acton.
È stato a questo punto che hanno perso una battaglia contro il modello pubblicitario, quando un avvocato gli ha consigliato caldamente di includere una clausola sul “product marketing”, per cui WhatsApp non avrebbe potuto essere considerato responsabile se un’impresa avesse usato l’app per fini di marketing.
I fondatori di WhatsApp poi hanno fatto ciò che hanno potuto per rimandare i piani di fatturazione di Facebook. Per gran parte del 2016, Zuckerberg è rimasto ossessionato dalla minaccia concorrenziale di Snapchat. Ciò ha reso più semplice per WhatsApp per mettere in secondo piano la monetizzazione e fare rapporto su nuove feature che copiavano Snapchat: una nuova lente che ti permette aggiungere emoji alle foto (a ottobre) e gli status (a febbraio del 2017).
A quel punto, passati tre anni dall’accordo, Zuckerberg iniziava a dimostrarsi impaziente, dice Acton, e ha espresso la sua scontentezza a un meeting generale con gli impiegati di WhatsApp. “Le proiezioni del cfo, l’outlook a 10 anni: volevano e avevano bisogno dei ricavi di WhatsApp per mostrare i dati giusti a Wall Street”, ricorda Acton. Acton aveva un piano B con cui provare a contrattaccare: incoraggiare le aziende a inviare “contenuto informativo e utile” agli utenti di WhatsApp, come l’sms dal suo meccanico Honda, ma non permettergli di pubblicizzarsi o tracciare i dati che vanno oltre un numero di telefono. Ha anche provato a spingere il modello di misurazione degli utenti. Nessuna delle due cose ha funzionato.
Più di un decennio prima Acton aveva lasciato una posizione da manager nel ramo pubblicitario di Yahoo mal sopportando il cosiddetto “approccio Nascar” del portale online, che infilava banner in ogni angolo di una pagina web. La spinta verso i profitti a scapito di una buona esperienza di prodotto “mi ha lasciato l’amaro in bocca”, ricorda Acton. Ora vedeva la storia ripetersi. “Questo è ciò che ho odiato tanto di Facebook quanto di Yahoo”, spiega. “Se ci rendeva due soldi, lo facevamo”. In altre parole, era venuto il momento di andarsene.
Nel frattempo, Koum è rimasto per maturare il periodo che lo separa dal ricevere le sue azioni, anche se raramente si vedeva in ufficio (in Silicon Valley la cosa è nota come rest and vest, “riposo e canottiera”). Koum è “riuscito a farcela”, lasciando il suo posto ad aprile, un mese dopo il tweet #deletefacebook di Acton, e ha annunciato in un post Facebook che si sarebbe dedicato a collezionare Porsche. Ad agosto, quando Forbes si è seduta a un tavolo con Acton, un’altra fonte diceva che Koum stava salpando nel Mediterraneo col suo yacht, lontano da tutto. Non è stato possibile raggiungerlo per avere suoi commenti.
Se voltare la schiena a 850 milioni di dollari vi sembra una penitenza, sappiate che Acton è andato oltre. Ha sovraccaricato una piccola app di messaggistica, Signal, gestita da un ricercatore del campo della sicurezza di nome Moxie Marlinspike e con la missione di mettere gli utenti davanti ai profitti, donandogli 50 milioni di dollari e trasformandola in una fondazione. Ora sta lavorando con gli stessi autori del protocollo opensource di crittaggio usato da Signal per proteggere gli 1,5 miliardi di utenti di WhatsApp, e la stessa opzione rimane sul tavolo per il Messenger di Facebook, Skype di Microsoft e Allo di Google. In buona sostanza sta ricreando WhatsApp nella forma pura e idealizzata che aveva alle origini: chiamate e messaggi gratis, con crittografia end-to-end e nessun obbligo verso gli inserzionisti.
Acton sostiene rimanendo sul vago che Signal oggi ha “milioni” di utenti, e l’obiettivo di rendere “la comunicazione privata accessibile e onnipresente”. Se i 50 milioni di Acton dovrebbero portarla lontano – Signal poteva permettersi solo 5 ingegneri a tempo pieno, prima che arrivasse lui – la fondazione vuole trovare un business model solido, anche se ciò significasse accettare donazioni da parte di società, come fa Wikipedia, o mettersi in società con una compagnia più grande, come Firefox ha fatto con Google. Altri attori sono entrati in campo. AnchorFree, una società di software di Redwood City, in California, crea un network privato virtuale che nasconde la tua attività online. L’app è stata scaricata 650 milioni di volte. La compagnia ha ottenuto 358 milioni di dollari di finanziamento, e secondo le stime sta facendo soldi. Il motore di ricerca privato DuckDuckGo sta ammassando 25 milioni di dollari l’anno, mostrando annunci senza utilizzare la tua cronologia per creare un profilo personale segreto, come fa Google.
I regolatori di molti Paesi, allo stesso modo, si stanno adoperando in strette sul tracciamento delle inserzioni. Saul Klein, uno dei più importanti venture capitalist di Londra, prevede che Facebook alla fine sarà costretto a offrire un’opzione di iscrizione a un servizio privo di pubblicità. Il modello di misurazione di Acton, in altre parole, potrebbe ridere ultimo.
Lui, Acton, da parte sua sta cercando di guardare avanti. Oltre a Signal, ha messo 1 miliardo di dollari dei suoi proventi di Facebook nelle sue iniziative di beneficenza, in supporto della sanità pubblica nelle zone più povere degli Stati Uniti e dello sviluppo infantile. Dice anche di voler crescere i suoi figli in modo normale: scuole pubbliche, quel furgoncino Honda, una casa (relativamente) modesta. Acton nota, tuttavia, che dista solo un miglio dall’imponente complesso abitativo di Zuckerberg. Una ricchezza estrema “non è la liberazione in cui potresti sperare”, sembrerebbe.
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