Il settore della moda è entrato in una fase di trasformazione che ha alla base la sostenibilità ambientale come nuova priorità strategica e leva fondamentale di branding. Al di là di quei player, come Patagonia, che hanno questi elementi radicati nel DNA, la maggior parte dei leader mondiali del fashion sta lanciando iniziative di sostenibilità, come conferma Marialuisa Trussardi, la quale tratterà questo tema in un suo prossimo libro. E aggiunge: “i risultati dipendono dal commitment di chi guida l’azienda nell’integrare la sostenibilità nelle strategie aziendali”.
Il modello di riferimento è quello dell’economia circolare, ovvero, passare da un’economia basata sulla linearità del ciclo materiale-prodotto-rifiuto ad un’economia a ciclo chiuso, che minimizza le risorse impiegate per la produzione e massimizza l’utilizzo del prodotto ed il recupero dei materiali. Qual è quindi la ricetta per avere successo? La scelta dei materiali, la progettazione per il recupero, la sostenibilità della produzione, la distribuzione e il packaging a basso impatto ambientale, la riparazione, il riciclo e, infine, i modelli di business alternativi per estendere l’uso del prodotto.
Partiamo dal primo tassello, i materiali: oggi il 60% dei tessuti è sintetico. Con i soli lavaggi immettiamo nell’oceano mezzo milione di tonnellate di microplastica, che inquina e viene assimilata dai pesci. Esistono già tessuti alternativi da trasformazione chimica che nascono dal riciclo di materiali di scarto ecologici, come quelli di Orange Fiber, azienda italiana che ha brevettato e produce tessuti utilizzando sottoprodotti della spremitura industriale delle arance. Questo materiale innovativo ha attirato brand come Ferragamo e H&M. Ma qual’è la barriera principale alla diffusione di questi materiali innovativi? Da un confronto con Erica Arena, co-fondatrice di Orange Fiber, emerge che: “la vera sfida è fare scale-up dell’innovazione, perché l’industrializzazione ha dei costi molto elevati, e non ci sono impianti per produrre questi nuovi materiali al di fuori dei laboratori in maniera scalabile. L’impegno e l’investimento diretto dei grandi player della moda è cruciale”.
Questo impegno va esteso anche alla gestione dei fornitori dei prodotti finiti. Porsche è un benchmark: ha creato un solido sistema di certificazione e monitoraggio continuo della sostenibilità dei propri fornitori e ne fa uno dei suoi elementi di forza. La tracciabilità in tutta la catena del valore è inoltre fondamentale. In questo senso ci sono già adozioni concrete di queste tecnologie, come quelle delle fibre tessili della Lenzing Group, utilizzate ad esempio nei tessuti di Levi’s e Victoria’s Secret.
Diventa fondamentale poi agire sul fine vita del capo: ogni secondo viene incenerito o seppellito in discarica un tir di abiti. Prima di tutto, per allungarne la vita, si può incentivare la riparazione del prodotto. Infine, si può recuperare il materiale, soprattutto se il prodotto è stato progettato adeguatamente. Il riciclo dei tessuti sintetici come il nylon è già un business fiorente per aziende italiane come la bergamasca Radici Group o la trentina Aquafil.
Ciò che sinora è poco esplorato ma che ha un futuro promettente è l’introduzione di nuovi modelli di business che possono diventare una nuova fonte di fatturato. Mi riferisco alla possibilità di adottare diversi modelli di affitto, one-shot di un singolo prodotto o subscription mensile di un intero guardaroba. E, a modelli di re-commerce dell’usato, ovvero di riacquisto e rivendita da parte del brand stesso.
In conclusione, l’adozione strategica della circular economy può contribuire simultaneamente al benessere del nostro pianeta e allo sviluppo competitivo dell’ecosistema della moda.
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