Stando a Linkedin, sarebbero circa 51 le Molly Bloom del mondo, ma la Storia tramanderà le gesta di quella che su Wikipedia è creditata come “imprenditrice”, oltre che autrice del memoir Molly’s Game, che esce in Italia edito da Rizzoli, e in contemporanea – il 19 aprile – anche sul grande schermo, quando alla Molly Bloom di cui si parla resteranno due giorni appena per organizzare la festa dei quarant’anni. E per non farsi mancare niente, la “principessa del poker” underground (leggi: illegale) statunitense ha scelto un cantore delle sue gesta che poche altre persone possono vantare: Aaron Benjamin Sorkin, uno dei padri nobili della televisione americana, autore dell’acclamata West Wing, al suo debutto cinematografico in cabina di regia.
Figlia di uno psicologo clinico (anche professore dell’Università Statale del Colorado) e di un’insegnante di sci e snowboard (anche pescatrice professionista) (e fondatrice di una propria linea di vestiti), Molly è stata subito affidata, senza tante domande, alle montagne innevate e alla sede di Boulder dell’ateneo del padre, dove si è laureata con lode in Scienze politiche mentre arrivava terza nella classifica femminile delle sciatrici del Nord America. Suo fratello, neanche a dirlo, oltre a sciare come lei (ma per le Olimpiadi) era pure giocatore di football professionista nei Philadelphia Eagles. Nei primi cinque minuti del film, però, ci viene subito svelato come e perché l’incanto sportivo di lei finirà presto, mentre la competizione famigliare e l’aspettativa dei genitori non troveranno mai tregua. I primi minuti servono pure a capire la velocità con cui ci verrà chiesto di acquisire le informazioni video-sonore per le successive due ore: non è un caso che il nome dei titoli di testa sia quello di Aaron Sorkin.
Premio Oscar grazie a Zuckerberg, Golden Globe grazie a Steve Jobs, Aaron Sorkin avrebbe potuto avere pure lui la carriera spianata, dato che padre, fratello e sorella sono tutti avvocati: lui invece si è cimentato dapprima con la recitazione, poi con il servizio ai tavoli e la guida di vetture altrui, finché non si è messo a scrivere per il teatro e poi, negli anni ’90, per Spielberg, Michael Bay, Tony Scott e Warren Beatty. Ma è solo grazie a Rob Reiner che la sua carriera ha subito un’impennata: prima con Codice d’onore, che viene candidato a 5 Golden Globes e 4 Oscar, e poi con Il presidente – Una storia d’amore, sceneggiatura di 400 pagine lunga due anni i cui scarti, nel 1999, avrebbero dato i natali a West Wing. Il political drama di Sorkin vince 26 Emmy Awards e inventa, soprattutto, il walk-and-talk: il rigurgito di dialoghi a passo svelto tra i corridoi dell’ala ovest della Casa Bianca. La serie diventa ben presto il programma preferito dei ricchi e lo show più premiato d’America dopo Hill Street, e si accavalla con il precedente progetto, meno longevo, di Aaron, Sports Night: lo stress lo portava a viaggiare in aereo con addosso marijuana, crack e funghi allucinogeni. Messe da parte droga e televisione, nel 2006 torna al cinema per restarci, e getta le basi per The Social Network e l’amicizia con David Fincher. L’adattamento del libro Miliardari per caso. L’invenzione di Facebook: una storia di soldi, sesso, genio e tradimento gli vale la prima candidatura e il suo primo e unico Oscar. Viene candidato dall’Academy nuovamente l’anno successivo, il libro questa volta è Moneyball: l’arte di vincere un gioco scorretto.
Nel 2014 Mark Gordon compra i diritti del libro di Molly Bloom, la quale rivela: “Sorkin è il mio sceneggiatore preferito”. Lo scrittore dunque viene assunto per adattare il testo al grande schermo, e all’inizio del 2016 la Sony annuncia che sarà lui stesso a dirigere la pellicola, debuttando come regista. Le riprese del film si svolgono, ironia della sorte, in Canada: dove l’imprenditrice non può mettere piede, essendosi dichiarata colpevole di un crimine federale negli Stati Uniti. (Per la première del film a Toronto, infatti, Bloom ha ricevuto un lasciapassare di 48 ore).
Sorkin riesuma il numero di Fincher, e lo chiama per chiedergli come fare quest’altro mestiere: la cifra stilistica che decide di sposare è il realismo; le mani che si vedono mischiare e muovere le carte nel montaggio sincopato sono tutte di giocatori professionisti, e tra un ciak e l’altro fa giocare agli interpreti interi tornei di poker con i PPP, i Professional poker players assunti come comparse nella pellicola. Dal momento che i figuranti, nell’industria cinematografica, guadagnano circa 90 dollari per un giorno di riprese, i PPP sono finiti con l’essere le persone più pagate del set.
Quando però i vostri pochi conoscenti paganti rimasti in Italia vi chiederanno “cosa c’è di bello al cinema?”, guai a rispondere “il film su quella che organizzava partite di poker illegali”. Fino al minuto 75, infatti, tutto si svolge secondo le regole: nessuna percentuale sulle partite clandestine, nessuna violazione per droga o prostituzione. Il realismo di Sorkin intanto vacilla davanti a Idris Elba, che interpreta l’avvocato della Bloom: nella prima scena in cui lo vediamo, tiene in mano il libro della cliente che, nella realtà, è stato pubblicato solo dopo la fine del processo. Attratto freudianamente dagli avvocati in generale, Sorkin, prima dell’udienza, mette in scena il lavoro dello studio legale immaginario, che si chiama casualmente Gage Whitney, come quello – pure inesistente – da cui proveniva Sam Seyborn prima di unirsi alla campagna presidenziale di Bartlet in West Wing, e anche quello di The Newsroom.
Se l’onorario dell’avvocato Elba è di 250mila dollari e Molly dichiara di averne “dieci volte tanti”, le mani del poker underground arrivano a soglie di 100 milioni a notte. E chi poteva manovrare tutte queste banconote, e quindi interpretare la Bloom del titolo, se non Jessica Chastain? L’attrice americana, vegana molto prima che l’olio di palma diventasse lo spauracchio della società, femminista già prima del discorso di Patricia Arquette agli Oscar 2015, firmò una colonna dell’Hollywood Reporter in cui denunciava lo squilibrio di genere nell’industria cinematografica (e si riferiva, ancora, solo ai ruoli). Al Festival di Cannes dello scorso anno, dove era giurata nel concorso principale, si lamentò del ritratto di passività femminile che emergeva dalle pellicole della selezione: accusò la stampa di non dare spazio a critiche cinematografiche donne e ha più volte sostenuto una maggiore parità dei sessi sul set, dove sono pochissime le signore che possono vantare ruoli di rilievo. Poi sono arrivati gli scandali delle molestie sessuali e i suoi profili social si sono fatti strumento di amplificazione per la voce delle vittime. Dopo i ruoli, la sua battaglia per la parità si è spostata sugli stipendi: a gennaio di quest’anno ha diffuso la notizia dell’Usa Today del grottesco cachet di 1.000 dollari che Michelle Williams ha ottenuto per il film di Ridley Scott – mentre Mark Wahlberg, per lo stesso titolo, ha incassato 1,5 milioni. “È un’attrice candidata all’Oscar, vincitrice del Golden Globe, che fa questo mestiere da vent’anni: merita di più dell’1% del salario del suo coprotagonista”, ha scritto su Twitter la Chastain.
Stando a Octavia Spencer, poi, la Chastain non solo parla ma pure agisce: durante il Sundance 2018 ha fatto in modo che la Spencer, collega sul set di The Help, ottenesse cinque volte lo stipendio che le era stato promesso. Tutto questo prodigarsi per gli altri quando non si può certo dire, però, che le cose a lei vadano altrettanto bene: è di qualche settimana fa la notizia che Xavier Dolan, regista del film La mia vita con John F. Donovan, ha dovuto tagliare il personaggio interpretato dalla Chastain, e quindi tutte le scene da lei girate, perché in fase di montaggio la pellicola stava superando le quattro ore. Lei, comunque, l’ha presa bene. Direbbe mio padre: “Fai del bene e scordatelo”.
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