In queste ore, i social network italiani sono presi d’assalto da un’ondata di reazioni più e meno indignate a un articolo di Michele Serra, che venerdì scorso nella sua celebre rubrica su Repubblica, Amaca, ha trattato il tema delle violenze subite dai docenti nelle scuole superiori. L’ex direttore di Cuore, partendo dall’aggressione subita da un insegnante a Lucca, ha scritto che “negli istituti tecnici e nelle scuole professionali la situazione è peggiore”, per quel che l’editorialista definisce “uno scandalo ancora intatto”: “Il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza”.
In buona sostanza, Serra addita quel che chiama la “struttura fortemente classista e conservatrice della nostra società”: “Vanno al liceo i figli di quelli che avevano fatto il liceo”, e questo perpetua la “debolezza culturale dei ceti popolari”. In molti hanno visto nell’articolo una prospettiva classista e snob – “radical chic”, con un termine ormai orribilmente abusato – sulla questione del bullismo, e molte voci si sono levate per criticare una certa insensibilità di fondo dell’intervento. Se su quest’ultima è lecito discutere – parlare senza dubbi di sorta di proporzionalità diretta tra ceto sociale e “rispetto delle regole” è quantomeno tranchant – fa specie che il coro di sdegno social si sia concentrato sul classismo: nella lettura di Serra non c’è prescrizione, semmai il contrario, ovvero una denuncia di una situazione preesistente (lo “scandalo intatto” di cui sopra). In un errore prospettico collettivo, l’oggetto della critica è diventato un tutt’uno con il critico, e Michele Serra – perfetto per incarnare il mito dello snob di sinistra, dato che non si è mai speso per sfatarlo – è finito sotto il fuoco incrociato degli autocertificati amici del popolo: Matteo Salvini ha colto la palla al balzo parlando di “vero razzismo, vera ignoranza” diretti ai “ragazzi degli istituti tecnici”; una nutrita schiera di commentatori (l’autore e attore Giulio Cavalli e l’autrice Lorella Zanardo, tra gli altri) ci ha visto “la sconfitta culturale della sinistra” chiusa nella sua torre d’avorio.
Eppure, cos’era il commento di Serra, se non un’osservazione “di sinistra”? La subalternità sociale come figlia della divisione in classi è uno dei perni della teoria marxista classica, d’altronde, per cui semmai si potrebbe sostenere l’opposto: Michele Serra ha assunto una prospettiva da socialista radicale, che vede negli squilibri materiali l’origine di quelli culturali e lo denuncia con un commento “sgradevole ma necessario”, per tornare a citare la sua Amaca.
Qualcuno ha provato a opporre all’analisi serriana un duro fact-checking: un report dell’Istat riferito al 2014 sentenzia che sono i liceali ad avere il triste primato di episodi di violenza o bullismo subìti fra i giovanissimi (19,4%), fanno notare in molti. Eppure quel dato si riferisce a “comportamenti offensivi, non rispettosi e/o violenti”, non distinguendo per gravità, e lo fa fermandosi alla percentuale specifica dell’incidenza in una certa categoria, senza offrire un panorama completo della materia in analisi. Il punto, però, ancora prima, è che Serra postula che il divario di codici e cultura danneggi le classi meno agiate. Per cui, se torre d’avorio dev’essere, quantomeno quella in cui è trincerato il corsivista sembra supportare la lotta di classe, non il suo contrario.
Giovanna Zoboli, responsabile della casa editrice per bambini Topipittori, ha raccontato una storia che la riguarda personalmente:
Qualche anno fa, postammo sulla pagina Facebook di Topipittori il link a un articolo che riportava i dati di un’indagine, condotta da un’università americana, sull’influenza delle disuguaglianze sociali sul numero delle parole conosciute dai bambini, realizzata nelle scuole degli Stati Uniti. I dati mettevano in luce che i bambini appartenenti a famiglie disagiate conoscevano un numero di parole nettamente inferiore, rispetto ai bambini di condizioni sociali superiori, fattore che li penalizzava, dato che questo divario mostrava di avere consistenti conseguenze sul loro futuro scolastico e professionale. L’indagine era stata realizzata per avviare un piano di interventi allo scopo di ridurre il divario economico, sociale e culturale nelle condizioni di partenza dei bambini. Il link, con grande nostro stupore, sollevò polemiche: alcune persone fecero notare che queste affermazioni erano gravi da parte nostra perché riflettevano un atteggiamento classista che metteva in cattiva luce la debolezza delle classi disagiate.
Il ben rodato meccanismo dell’indignazione sui social ha preso di mira il suo editoriale senza nemmeno premurarsi di metterne a fuoco il contenuto, dimostrando un’incapacità di comprensione del testo potenzialmente ben più grave della presunta mancanza di tatto della penna di Repubblica. Tocca scomodare Jon Ronson, autore del fortunato saggio I giustizieri della rete (Codice) e teorico delle vie impervie attraverso cui l’istinto moralista, massificato e amplificato sui social network, è diventato la nuova gogna pubblica. L’utente medio di internet ha un interruttore sempre premuto che catalizza la formazione di sentimenti “forti” come l’esasperazione, l’arrabbiatura e, nei casi peggiori, l’odio. In queste ore tocca a Michele Serra, reo di aver scelto parole poco felici per un concetto che in molti hanno travisato; domani potrebbe essere il turno di chiunque altro.
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