Terremoto di Chiara Barzini è un libro con una storia particolare: nato in inglese, col titolo Things That Happened Before the Earthquake, è stato pubblicato da un editore di New York, Doubleday, e poi è finito nei suggerimenti di lettura del 2017 del New York Times, che l’ha definito “un romanzo culturalmente sottile, dalla voce forte”. Terremoto – in Italia grazie a Mondadori – è prezioso per il lettore italiano: racconta il trasferimento repentino di una famiglia un po’ freak e un po’ hippie, e in particolare del coming-of-age storto della figlia Eugenia, avvenuto in America al seguito del padre in cerca di fortuna nel cinema californiano. Ma siamo in un’America inaspettata e fuor di stereotipo, quindi molto accurata, obiettiva: acida e sconvolta. Ricco di riti d’iniziazione spesso edonistici, dalle sperimentazioni con il sesso a quelle con le droghe, delle quali quella nazione sembra la patria eletta e corrotta a un tempo, il romanzo contribuisce a raccontare un periodo tutt’altro che placido e naif per gli States: i 90s, l’epoca del grunge dei Nirvana, del noise di Sonic Youth e dei rave, delle serie tv adolescenziali, dell’esplosione di Mtv che decadeva nei libri di Bret Easton Ellis e David Foster Wallace. Ma il libro rappresenta anche l’America politicizzata mai doma per quanto riguarda le questioni razziali, sociali, Lgbt. Tanti sono i terremoti che la protagonista vive, da romana che invoca la Madonna, a un tempo integrata e impaurita. Abbiamo chiesto a lei stessa di parlarcene.
Chiara, più volte hai associato per contrasto questo romanzo al momento in cui sei divenuta madre. Perché questo attrito? È un ulteriore modo di fare i conti con quella cultura che potremmo considerare tua “matrigna”, cioè quella americana?
Più che per contrasto, il romanzo è associato alla maternità per necessità. Negli anni in cui l’ho scritto ho avuto due figli e ho dovuto imparare a organizzare il tempo e lo spazio in maniera diversa. Soprattutto ho sviluppato una vera e propria ossessione per il silenzio. Ho costretto il mio compagno a occuparsi dei miei figli in alcuni passaggi fondamentali e grazie a quei momenti di pace e distacco sono riuscita davvero a entrare nel cuore della scrittura. Ho anche ricevuto l’aiuto di molti amici che mi hanno sostenuta sia con i bambini che nel darmi spazi calmi dove lavorare. Detto questo, il ruolo di mamma italiana è molto difficile da mantenere… Lo standard è altissimo e io fallisco regolarmente.
Terremoto è nato prima in inglese e quindi l’hai tradotto in Italiano. In Italia, sono rarissimi i casi di autori perfettamente bilingue, anche se le ultime generazioni ne presentano in realtà potenzialmente diversi, penso a Durastanti, Latronico, lo stesso Pacifico con il quale hai lavorato. Cosa pensi di questa nuova generazione di autori bilingue? Quali potenzialità presentano?
Amo molto il lavoro di Claudia Durastanti che vive a Londra e sceglie di scrivere in italiano e con cui condivido la passione per le vite che sono al di fuori del “centro”. Mi riconosco più che altro in questo: aver bisogno di mettere distanza tra ciò di cui si parla e il luogo dove si vive. Penso che per tutta la “nuova generazione” di scrittori italiani che scelgono di vivere altrove o scrivere in altre lingue sia una questione di libertà. Io sento di potermi permettermi dei lussi sfrenati in inglese che in italiano non mi concederei mai. Poi c’è Francesca Marciano che per me è stata una grande guida. Quando ho letto il suo Rules of The Wild sono impazzita. Ma penso che il mondo stia diventando sempre più piccolo e che siamo tutti un po’ banalmente formati da spizzichi e bocconi di altre culture e altre lingue.
Il tuo libro riflette lucidamente sull’abitare nelle metropoli sconfinate, specie Los Angeles, della quale sei abile nel descrivere soprattutto le brutture, gli abbagli, ma anche i nodi cruciali come le rivolte di Rodney King nel 1992 o il terremoto nel 1994. Crolla così un po’ il mito delle grandi città americane ricche di scambi, opportunità, crocevia esistenziali: perché la loro atmosfera è per giunta a volte bigotta e soffocante. Adesso mi chiedo: che cosa pensi del tuo rapporto con lo spazio metropolitano, riguardo la Roma di oggi, la Roma che hai abbandonato da bambina? Cosa salveresti e cosa butteresti?
Io ho sempre vissuto ai margini della città. Da bambina sono cresciuta in una vecchia fattoria sulla Via Cassia vicina al raccordo. Quando sono tornata dagli Stati Uniti sono andata a vivere a Torre in Pietra. La città intesa come nucleo o centro non mi ha mai affascinata. Adesso dopo anni di “confini” il mio compagno si è impuntato e viviamo in una zona centrale. È tutto molto comodo e sostenibile, ma mi mancano la dispersione e il verde. Mi manca anche la noia degli spazi vuoti, il comfort dell’anonimato. Quando attraverso un McDrive di McDonald’s ordino un Sundae al caramello si ricompone una sfera emotiva, non so neanche io perché. Forse sono anche stata traviata dall’ovest. È diventato uno stato mentale al quale non riesco a rinunciare. Di Roma salverei la costa, Maccarese, i tellinari, i baracchini sulla spiaggia. Eliminerei i Suv in doppia fila con le quattro frecce del Flaminio.
A scoprirti è stato Gerald Howard, editor a Doubleday anche di David Foster Wallace (ma anche di Hanya Yanagihara). Come è stato il tuo rapporto con lui? E con l’autore di Infinite Jest, che fu definito il più grande romanzo grunge americano e quindi dovrebbe riguardarti? Sei d’accordo con il monumentale affresco edonistico di quel libro-kolossal, che voleva proprio descrivere il Sistema America come fondato sul piacere e il suo controllo?
Gerry Howard ha creduto molto in questo romanzo ed è stato un vero padrino per me, nel senso che ha lasciato che questo libro, come spesso accade con i primi romanzi, fosse imperfetto. Personalmente ho i denti storti e spezzati perché da piccola mi sono strappata di dosso l’apparecchio fisso e i miei genitori non me l’hanno mai rimesso. Questi denti storti che poi mi hanno causato molte ansia da adolescente, sono un po’ uno specchio della mia personalità ormai. Per me il fatto che Howard non mi abbia costretta a rimettermi quel dolorosissimo apparecchio è stata una delle più grandi conquiste della mia vita adulta.
Wallace e Yanagihara sono due autori molto diversi tra loro. Wallace ormai fa parte di un’epoca lontana e parla di un America che forse non esiste più. Però per me è stato assolutamente rivoluzionario, e molta della sua potenza proviene proprio dalla libertà che gli ha dato Howard. Lo ha lasciato stare con le sue digressioni e note, ha lasciato che trovasse la sua strada senza mai mettere in gioco il suo ego di editor. A Little Life è uno dei romanzi più potenti e struggenti che io abbia mai letto. È completamente diverso da qualsiasi cosa che abbia mai scritto Wallace, ma in comune ha una certa vena “estrema”. È stato Howard a fidarsi di quelle settecento e passa pagine, e ha saputo prendersi un rischio di cui poi il mondo intero gli è stato grato. Come editor ha una penna leggera e una curiosità genuina. È un uomo di grande intelligenza.
Se dovessi immaginare un’esperienza speculare, ovvero il trasferimento di un’intera famiglia americana in Italia e di una potenziale Eugenia americana, cosa credi che cambierebbe nell’esperienza della protagonista del nuovo Terromoto all’italiana? Quali nodi irrisolti della società italiana incontrerebbe un’adolescente americana?
I nodi dell’adolescenza sono gli stessi da sempre, ma se dovessi immaginarmi un Terremoto all’italiana saprei a cosa attingere. Ho messo i miei figli in mano a molte babysitter americane post-adolescenziali. Il loro è soprattutto un problema di limiti. Il fatto di poter bere, fumare, uscire, guidare il motorino e parcheggiarlo su un marciapiedi. Il fatto di poter infrangere tutte le regole che solitamente mirano a rendere i teenager americani come delle versioni represse di Richie Cunningham è un’arma a doppio taglio. Basta uno shot di tequila di troppo a Campo de’ Fiori e si passa al lato oscuro.
Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .
Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .