Per un caso fortuito e una conclamata sindrome da procrastinazione televisiva, soltanto qualche giorno fa mi sono trovato a concludere la settima e ultima stagione di Mad Men, la serie tv creata da Matthew Weiner per Amc, che ha segnato la storia della televisione come poche altre. Non ho avuto nemmeno il tempo di elaborare una qualche forma di nostalgia o mancanza perché oggi, 7 novembre, Matthew Weiner pubblica in contemporanea mondiale il suo primo romanzo. In Italia si intitola Heather, più di tutto, ed è edito da Einaudi.
Cosa ci si aspetta dal debutto al romanzo – anzi, al romanzo breve – di un uomo che ha vinto tre Golden Globe e nove premi Emmy? Sarà pur vero, parafrasando quel che Moravia disse ai funerali di Pasolini, che di Don Draper ne nascono tre o quattro in un secolo, ma Heather, più di tutto è un libro ben riuscito. Racconta la vicenda infelice di Mark e Karen Breakstone, una facoltosa coppia di Manhattan sposatasi “in età matura” e trasferitasi in “un palazzo di dieci appartamenti a ovest di Park Avenue”. Lui ha un lavoro di alto profilo nella finanza, lei un passato nelle pr dell’editoria; entrambi sono privi di aspirazioni, un po’ insicuri, molto innamorati, vagamente inadatti alla vita che gli è stata assegnata. Poi le loro esistenze vengono sconvolte da uno tsunami: la nascita di loro figlia, Heather, fin da piccola così bella che i passanti di New York sono istintivamente portati a pensare che non venga da loro. Heather assorbe completamente le attenzioni e i desideri di sua madre (in questo senso, la descrizione migliore è quella del titolo originale Heather, the totality). Ma il tempo passa – e passa a ritmi serrati, nel romanzo di Weiner – e le cose cambiano, si corrompono, diventano irredimibili. Heather non vuole più saperne della madre, si lega al padre un po’ per affetto e un po’ per inconsapevole calcolo, perde la sua naturale capacità di portare gioia e serenità (“il segreto più difficile, quello che il mondo non doveva mai vedere, era la malinconia nascosta sotto il suo sorriso”), inizia a odiare i genitori.
Sulla scia di alcuni grandi romanzi degli anni prediletti da Weiner, i Sessanta (viene in mente Stoner, soprattutto), il matrimonio di Mark e Karen ha tutti i connotati della tragedia a cui è impossibile sottrarsi, e la figlia di pagina in pagina passa da totalità benefica, a oggetto di contesa, a ossessione autodistruttiva. Bobby, l’elemento dirompente che fa esplodere le contraddizioni e le ansie della vita familiare, è solo una miccia, per quanto insolita.
Eppure questo è soprattutto l’esordio narrativo di un maestro della serialità, il “creatore di Mad Men” di cui la fascetta einaudiana non può fare a meno di parlare: quanto Mad Men c’è in Heather, più di tutto? La traduttrice del romanzo Silvia Pareschi deve aver avuto spesso a che fare con una parola centrale nella poetica di Weiner: “Empatia”. I personaggi weineriani ne sono colmi o completamente privi, e le loro interazioni col mondo che li circonda sono misurate e regolate dai filtri dell’intelligenza emotiva (a pagina 27 Heather, a cinque anni, si rivolge dal suo passeggino a una donna nella metropolitana di New York: “«In metropolitana fanno tutti finta di essere soli, ma non lo sono». A quel punto la Donna scoppiò in lacrime”).
C’è anche una riconoscibile attenzione complessa per il sesso, inteso come forma di liberazione ma anche come menzogna nichilista (Mark “trovava alienante il sesso come fine ultimo da raggiungere grazie a una falsa intimità”). Manca, ovviamente, tutto il mondo patinato che ha reso grande la serie di Amc: l’evoluzione dei personaggi – qui giocoforza molto costretta – di Madison Avenue, i loro cocktail furtivi, le loro idiosincrasie da pionieri. Ciò detto, non sarà la voce rassicurante di Walter Cronkite che racconta l’assassinio di Kennedy mentre Don Draper indugia pigramente sulla poltrona del suo attico, ma anche fra le pagine di Heather, più di tutto si respira l’America.
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