Giovedì scorso, una trasmissione in diretta sul popolare sito di streaming di videogiochi Twitch ha battuto ogni record, raggiungendo un pubblico di 630mila utenti connessi simultaneamente. Per centrare l’obbiettivo, a suo modo storico per il canale di Amazon dedicato al gaming, sono stati necessari tre ingredienti: Drake travestito da cespuglio, il videogiocatore professionista Ninja a pochi metri da lui, e Fortnite.
Se è molto probabile che il primo, uno dei rapper più popolari al mondo – e forse anche il secondo, vale a dire Tyler Blevins, lo streamer numero 1 di Twitch – abbiano nomi già sentiti almeno una volta, vale la pena approfondire il contesto del trionfo soffermandosi soprattutto su Fortnite, il vero motivo dell’osservatissimo rendez-vous digitale. Perché Fortnite è ben più del videogioco del momento; è un fenomeno da 40 milioni di utenti, capace di svelare i segreti del genere oggi più redditizio del settore – il battle royale – e di indicare come stiano cambiando i passatempi preferiti fra gli under 25: videogiocare e guardare chi lo fa (dato del centro di ricerca Newzoo).
È luglio del 2017 quando Fortnite arriva sul mercato; pubblicato da Epic Games, il gioco è uno shooter online in terza persona, pensato per inserirsi nel filone “survival”. Fra le sue lande sperdute, per sopravvivere a nemici controllati dall’intelligenza artificiale il giocatore è chiamato via via ad armarsi, a cooperare con un compagno e a costruirsi postazioni d’attacco, muri di protezione, addirittura piccole fortezze. In altri termini, quella di Fortnite è una miscela arricchita da una grafica in stile cartoon, che secondo i piani dei suoi autori dovrebbe garantire incassi cospicui.
Peccato che al momento del lancio, il mercato registri un terremoto: un oscuro gioco indipendente, PlayerUnknown’s Battlegrounds, inizia a sbriciolare record di popolarità e gradimento. Soprattutto, educa un pubblico sempre più ampio ai piaceri primordiali di un nuovo genere, il battle royale, appunto, in cui si gioca tutti contro tutti e a vincere è l’ultimo sopravvissuto. Pubblicato quattro mesi prima di Fortnite, PUBG – com’è noto per gli appassionati – catapulta su un’isola immaginaria 100 giocatori online senza alcun equipaggiamento. Quindi li costringe ad attrezzarsi alla bell’e meglio e a massacrarsi su una mappa che progressivamente si restringe. Ispirato da un film giapponese del 2000, Battle Royale di Kinji Fukasaku, PUBG ne traduce in pixel l’intuizione narrativa, la stessa capace di far la fortuna cinematografica della serie Hunger Games: la lotta per la sopravvivenza, una caccia in cui preda e predatore possono invertirsi: mette a portata di joypad i nostri istinti più ancestrali e diventa la base di un agonismo contagioso.
Sviluppato come modifica del simulatore bellico Arma (e per distrarsi da una delusione d’amore) da Brendan Greene, un quarantunenne irlandese nemmeno game designer, PUBG viene pubblicato senza crederci troppo, a 14 euro e 99 (oggi costa il doppio ed è disponibile su Pc e Xbox One). Cinque mesi dopo, spodesta Dota 2 per ore di gioco mensili sulla piattaforma Steam. È il primo a riuscirci in anni. Incassa 100 milioni di dollari in 10 settimane e quando esce la sua versione definitiva, a dicembre, il traguardo dei 10 milioni di copie vendute è a un passo.
Nel pieno dell’entusiasmo, quasi nessuno pare curarsi del lancio di Fortnite. Tranne Epic Games, che capita l’antifona ha un’intuizione fulminante: a settembre aggiunge al gioco originale la modalità Fortnite: Battle Royale. Sembra identica a PUBG: lancio da un aereo, isola che si restringe; ma se ne discosta in tratti sostanziali. Sono loro a fare di Fortnite una fenice, che rinata dalle proprie ceneri a febbraio 2018 ha incassato 103 milioni di dollari solo in micro acquisti e oggi conta circa 10 milioni di utenti in più del suo avo e concorrente. Fra questi ultimi, ci sono giocatori come Drake e Ninja (che per inciso, anche grazie al gioco, ha dichiarato di incassare 500mila dollari al mese). In Fortnite, la modalità battle royale è gratuita e cross-platform. Significa che giocatori su Pc, Xbox One, iOs e Mac (ma il gioco c’è anche per Playstation 4) possono condividere la stessa partita e senza spendere un euro. Ereditata la spietatezza di PUBG, Fortnite la edulcora con una grafica vivace e molto meno verosimile, in altri termini più accessibile a tutti. In particolare a quei giocatori – genitori annessi – cresciuti con Minecraft, il “Lego digitale” che ha cullato le ultime generazioni. E che Fortnite richiama in modo esplicito, con la possibilità di costruire postazioni, ponti, passaggi e fortini sui suoi campi di battaglia.
È come se Fortnite fosse l’evoluzione formato sparatutto dei più classici giochi “di costruzione”. Con un’altra ciliegina sulla torta: un bilanciamento così solido da poterlo trasformare in un eSport, una disciplina competitiva di alto livello, oggi il nirvana ambito da qualsiasi videogame.
È questa commistione a imprimersi nella testa del pubblico e a funzionare. Non certo per chissà quale miracolo del marketing – da cui dipendono le fortune iniziali, è vero, importanti quanto fuggevoli – ma grazie alla capacità di sedurre anche i giocatori meno esperti, di sollevarne gli entusiasmi e mantenerne la voglia di giocare giorni interi, mesi, anche anni dopo la prima partita. Fortnite potrebbe avere un futuro più lungo anche di quello dei giochi cui si è ispirato per nascere. Per questo motivo dopo il record di giovedì scorso, ieri sera una partita di Elrubius, altra superstar dello streaming, ha superato il milione e centomila utenti connessi contemporaneamente. Stavolta Elrubius non era camuffato da cespuglio; Ninja non gli guardava le spalle e la piattaforma era YouTube, non Twitch. Solo il gioco era lo stesso: Fortnite, appunto.
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