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Cultura

Vedere Milano con gli occhi di Hemingway

Gara di nuoto nel Naviglio Grande, primi Novecento.

Arrivare a Milano dopo una vita in provincia significa abbandonare progressivamente le proprie convinzioni (che non di rado hanno la forma biforcuta del pregiudizio), i propri riti quotidiani e il proprio metodo di valutazione del tempo per abbracciare una rivoluzione: dal primo autobus che sferraglia in un grigio vialone di periferia si fa strada una nuova consapevolezza, che col passare del tempo cambia il modo di intendere la vita. Dopo dieci anni da milanese d’adozione, ho ricordi sfocati delle sensazioni che accompagnano le “prime volte” del provinciale: luoghi comuni, anche anonimi, che negli occhi di chi è abituato alla piccola o media città diventano simbolici, quasi mitici. Milano è una città di una “bellezza pudica che si nasconde dietro ai portoni massicci e che richiede tempo per essere scovata, decodificata e, infine, ammirata”. Le parole sono di Michele Turazzi, editor e autore di un nuovo libro molto meritevole, Milano di carta (Il Palindromo), un reportage narrativo che sovrappone a vie e piazze meneghine il loro alter ego visto sulle pagine scritte da alcuni dei più grandi autori moderni e contemporanei. Citando lo stesso Turazzi, non a caso anch’egli adottato dalla città (è nato a Treviso):

In una città in cui il tempo scorre veloce, la bellezza va cercata senza fretta. Con meticolosità e attenzione. È anche questo a rendere Milano la più letteraria tra le città italiane.

La cover di “Milano di carta” (Il Palindromo).

In Addio alle armi di Ernest Hemingway, il capoluogo lombardo ha i contorni dell’oasi di pace, un avamposto di tranquillità nell’Europa assordata dagli spari della Prima guerra mondiale: è la Milano “dei caffè scintillanti, dei vini bianchi ghiacciati e delle passeggiate in corso Vittorio Emanuele II. Quella del Campari, lo storico caffè dello storico aperitivo, del Cova, più che un locale un’istituzione, e dell’ippodromo di San Siro, in aperta campagna”, scrive l’autore di Milano di carta. All’angolo tra via Armorari e via Cesare Cantù, a due passi dal Duomo, c’è – ancora – il palazzo che nel 1918 ospitava l’ospedale che accolse il grande scrittore, allora diciottenne e ferito da una granata austriaca; qui Hemingway si innamorò di un’infermiera, cui in Addio alle armi dà il volto della “bellissima” inglese Catherine Barkley.

Avrei voluto essere con lei a Milano. Mi sarebbe piaciuto mangiare al Cova e poi scendere per via Manzoni nella sera calda e attraversare e girare lungo il Naviglio e andare in albergo con Catherine Barkley.

Turazzi vaga per le vie milanesi con gli occhi meravigliati del flâneur, riuscendo a far risaltare i particolari quotidiani dei luoghi della sua città come se si trattasse di tesori appena emersi da un fondale: c’è la Brera di Luciano Bianciardi, l’intellettuale di provincia che si sente un corpo estraneo nella Milano del boom ne La vita agra e non la nomina mai, trincerandosi nel suo quartiere “cittadella”, oggi passato da luogo d’elezione di giovani artisti squattrinati (che all’epoca di Bianciardi barattavano le loro tele con pasti caldi) a zona di “pubblicitari, presentatori televisivi, modelli, antiquari e stilisti”; c’è la città buia ed eterea di Dino Buzzati (Un amore e Poema a fumetti), cresciuto in via San Marco, a quel tempo (primi del Novecento) una distesa d’acqua su cui attraccavano le navi; c’è quella inospitale e criminale di Giorgio Scerbanenco, o meglio del protagonista dei suoi noir Duca Lamberti, su cui si stagliano le ombre di Francis Turatello e Renato Vallanzasca: imperniata su Città Studi, la versione di fine anni ’60 non è troppo diversa da quella del 2018, “pochi negozi, poca gente in giro, case basse e ben tenute, un silenzio quasi irreale”.

Riscoprire la città.

Lalla Romano, invece, arriva a Milano dal Piemonte nell’immediato dopoguerra, ma vede una città diversa dagli altri: secondo Turazzi, “pudica e silenziosa, la Milano di Lalla Romano non ama mettersi in mostra. Preferisce mimetizzarsi sullo sfondo, con le sue strade lastricate, i suoi ristoranti e i suoi parchi; […] una città borghese e umanista, erede di una tradizione lombarda di lungo corso […]. Ogni successo, ogni merito deve essere celato, soltanto abbozzato, in nome di una riservatezza nordica che a volte è scambiata per altezzosità”.

Un capitolo importante – e riuscito – è quello che Milano di carta dedica a Carlo Emilio Gadda, che ne L’Adalgisa compone “alcune delle pagine più belle mai scritte su Milano”: un’alta borghesia contraddittoria e spesso grottesca a cavallo tra le due guerre, che verrà poi cancellata dai bombardamenti di qualche anno dopo, ma che fra le righe dell’autore del Pasticciaccio continua a dilettarsi per le vie del centro città. Turazzi segue un gruppo di militari in licenza descritti da Gadda per le strade che costeggiano il Castello Sforzesco: “I rumori si fanno blandi, le automobili corrono lontane, le persone a passeggio sono poche e frettolose: costeggiare il castello di sera, con il riverbero delle luci giallastre a illuminare le torri, pacifica e disintossica. La giornata appena conclusa si rimpiccolisce fino a diventare insignificante, sotto queste mura che hanno protetto Sforza e Visconti, e poi spagnoli, austriaci, francesi”. Con Milano c’è sempre una prima volta.

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