Bandung è una grande città universitaria, capoluogo della provincia indonesiana del Giava dell’ovest, con più di 2 milioni di abitanti. Da qualche tempo è nota per Rabbit Town, un curioso parco divertimenti che attira turisti da tutta l’Indonesia per una sua caratteristica peculiare: tutti gli spazi del museo – anche se Rabbit Town non si definisce così – sono pensati per scattare il selfie perfetto, e condividere il risultato sui social media.
Il parco, aperto dal magnate dell’hôtellerie Henry Husada, è finito nell’occhio del ciclone perché accusato di copiare alcune famose installazioni di artisti internazionali affermati: all’interno degli spazi di Rabbit Town si trova la sala Love Light, una replica in scala ridotta di Urban Light di Chris Burden (una serie di lampioni posizionati a poca distanza uno dall’altro); la Sticker Room, invece – uno spazio casalingo completamente bianco in cui i visitatori possono attaccare post-it colorati – somiglia molto da vicino a un lavoro analogo dell’artista Yayoi Kusama, Obliteration Room.
Il magazine online The Outline ha scritto che Rabbit Town è “un santuario dedicato all’onnipresente attività esistenziale del farsi le foto”, e il suo stesso fondatore non ha fatto mistero delle sue intenzioni di sfruttare il selfie tourism, pur glissando sulle accuse di plagio (l’account Instagram del museo il mese scorso era stato disattivato dopo una rimostranza avanzata dal Museum of Ice Cream, una mostra americana itinerante di grande successo, anch’essa finita tra le “ispirazioni” di Rabbit Town).
Per gli artisti coinvolti nei plagi, le strade da prendere per rivalersi su Rabbit Town sono limitate: il concetto di fair use legato ai diritti d’autore è molto elastico, e le distanze geografiche e di regolamentazione non aiutano. Di certo, il museo indonesiano è riuscito a sfruttare un trend sempre più di massa, che nell’ultimo decennio ha visto aumentare esponenzialmente i visitatori dei musei mondiali (si parla di milioni di persone), sempre più portati a offrire contenuti “instagrammabili” e a misura di like. In questo senso, allora, forse la “Selfieland” dell’Indonesia può essere letta anche come un’inconsapevole critica alla dittatura dei contenuti.
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