“Una delle poche lezioni su cui biologia e storia combaciano è che tutti, uomini e animali, dalle più rudimentali forme di vita agli organismi più sofisticati, preferiscono obbedire anziché decidere. Colpisci il capo e il resto del branco si farà prendere dal panico”. Questo passo non è tratto da un saggio. È parte di un romanzo giallo, ma non uno qualunque. Sulla copertina fanno bella mostra di sé due nomi, stampati in caratteri ancora più grandi di quelli utilizzati per il titolo, dato che sono nomi pesantissimi. Uno è quello di James Patterson, il giallista più venduto (e più pagato) al mondo. Ma non è quello che compare per primo: a precederlo svetta quello del 42esimo presidente degli Stati Uniti. Di Bill Clinton si conosceva il debordante talento oratorio (“il suo fascino è irresistibile come le onde dell’oceano, ma vuoto, senza contenuti” disse di lui un altro grande autore di thriller, il reaganiano Tom Clancy), ed è stata immensa la popolarità nel recente passato (fino a pochi anni fa – prima che la candidatura presidenziale di Hillary rompesse l’idillio – giravano sondaggi a tema “ex presidente preferito” nei quali lui superava il 40%, e fra gli altri nomi in lista nessuno raggiungeva nemmeno il 20), ma come romanziere è un debuttante (essendo, del resto, la prima volta nella storia che un ex presidente si cimenta in una simile impresa).
Patterson, al contrario, ha all’attivo più di 150 libri, di molti dei quali ha creato più che altro il “soggetto”, delegandone poi buona parte della scrittura finale a un team di collaboratori. Le sue trovate sono quasi tutte rivolte alla trama e al profilo dei personaggi; la stesura vera e propria la lascia ad altri. Anche per questo i suoi libri sono tanto snobbati dalla critica: ma di questo ai lettori non potrebbe fregare di meno. Un caso che calza a pennello in questi anni di dicotomia popolo/élite, insomma. Le vendite dei suoi romanzi superano quelle di John Grisham, Stephen King e Dan Brown messe assieme. Nel 2010, Patterson è stato il primo autore a vendere più di un milione di ebook.
Il Presidente è scomparso – così si intitola il libro firmato da questa strana coppia – è appena uscito in tutto il mondo (in Italia per Longanesi), e per molti versi non si discosta dai precedenti lavori di Patterson. La vicenda è narrata in prima persona dal punto di vista del protagonista, come nel caso del suo personaggio prediletto Alex Cross (che appare in ben 26 romanzi) o di Michael Bennett (una decina). Stavolta, però, il protagonista non è un detective bensì Jonathan Lincoln Duncan, un immaginario presidente degli Stati Uniti alle prese con una gravissima e inedita minaccia terroristica, che affronta in modo a dir poco eterodosso, “scomparendo” dalla Casa Bianca ed avventurandosi in un’impresa individuale degna della più tradizionale mitologia americana.
Che la tecnica narrativa sia efficacissima, che i colpi di scena si sprechino, che il ritmo risulti serrato, è tutto sommato scontato, per chi ha consuetudine con i libri di Patterson; così come è usuale che il giallista non abbia scritto il libro da solo. Decisamente insolito è, invece, si diceva, il fatto che ad affiancarlo nella creazione stavolta sia stato un ex presidente – il quale conosce come poche persone al mondo i segreti e i dettagli della Casa Bianca. Il risultato è godibilissimo, soprattutto per chi oltre ai thriller di Patterson avesse amato serie tv come 24 o Homeland. Non a caso, anche questa storia è destinata a essere trasposta in un titolo per il piccolo schermo, del quale il canale Showtime si è già aggiudicato i diritti. Trasformare il libro in una sceneggiatura a episodi non richiederà grandi sforzi: sembra scritto apposta (e probabilmente un po’ lo è davvero).
Naturalmente, l’opera prima clintoniana è consigliatissima non solo agli amanti dei gialli, ma anche ai patiti di politica americana. In realtà, a guardar bene negli ultimi decenni è stata la fiction a raccontare la vita pubblica americana meglio di qualsiasi altra cosa.
L’America di fine anni ’90 reduce dalla presidenza del futuro giallista Bill Clinton, coccolata da anni di grassa crescita economica ma anche indignata dagli scandali e dalle ipocrisie che avevano invaso le cronache politiche di quegli anni, aveva eletto alla Casa Bianca un simple man che aveva ben governato il Texas, George W. Bush (e pareva convinto che governare gli Stati Uniti fosse più o meno la stessa cosa); ma l’epoca nella quale il Paese si è risvegliato di lì a poco si è invece rivelata tragicamente difficile. Mentre la affrontavano – governati da un presidente ingenuo – gli americani si sono innamorati della serie tv The West Wing, che celebrava pedagogicamente i più edificanti modelli di un politica nobile e virtuosa (come aveva smesso di apparire durante l’era Clinton) ma anche affidata a uomini di straordinaria competenza, scelti per il loro acume e per la loro saggezza (non esattamente il ritratto di Bush). Il genio di Aaron Sorkin, il creatore della serie, aveva pensato il personaggio di Jed Bartlet, il democratico che l’America non aveva, già premio Nobel per l’Economia, ex governatore del New Hampshire, intelligentissimo e spiritoso, contraddistinto da un’integrità morale al limite della santità e minato fisicamente dalla sclerosi multipla.
Ai tempi di Barack Obama, viceversa, esaurita la pazienza e la fiducia nei confronti del giovane volto nuovo – amato proprio perché inesperto, così à la page e così prodigo di bei discorsi – la rivisitazione americana di House of Cards ha avuto un successo cui quella originale britannica degli anni ’90 non si era potuta nemmeno avvicinare. Una fiction basata sulla disillusione e sul cinismo, esibiti in modo quasi liberatorio, sull’ostentazione dell’idea che chi comanda arriva al potere grazie a una ferocia sanguinaria e a una spregiudicatezzaluciferina. Ovvero l’antitesi, o forse lo “smascheramento” della pia illusione coltivata in The West Wing.
Riuscirà il presidente Duncan plasmato dal dinamico duo Patterson-Clinton a catalizzare l’immaginario e le frustrazioni dell’America ai tempi di Trump? In attesa di capirlo, è interessante osservare su quali caratteristiche i due hanno puntato. Il loro presidente è un ibrido tra il Jed Bartlet di The West Wing e il Jack Bauer di 24: veterano di guerra; reduce dalla perdita dell’amatissima moglie per colpa del cancro; minato lui stesso da una malattia del sangue, ma molto più intraprendente – anche fisicamente – della maggior parte delle persone clinicamente sane; circondato da tanti piccoli Frank Underwood, ma più forte di loro proprio perché più onesto e moralmente più saldo.
La parte più sintomatica sta forse in ciò che Clinton e Patterson hanno scelto di lasciare fuori dalla porta. Più che sull’assenza del sesso, che tanto ha colpito il recensore del New Yorker – il quale evidentemente era a caccia di assonanze con la vicenda personale di Clinton – è forse più utile soffermarsi sulla totale assenza, in cinquecento pagine di romanzo, della parola “Twitter”. Il presidente Duncan vive ed agisce in una realtà contemporanea (affrontando i russi, l’Isis, i turchi, gli hacker), ma alternativa rispetto a quella che stiamo vivendo. Una realtà nella quale internet conta moltissimo, persino troppo, eppure sembra non esistere alcun social network, non solo per lui (che deve occuparsi di cose più serie) ma anche per tutti gli altri personaggi. Una dimensione nella quale i politici comunicano ancora con il popolo tramite la televisione, come vent’anni fa, senza scavalcare la mediazione dei giornalisti, e quando parlano direttamente “alla gente” lo fanno con lunghe orazioni, non con messaggini troppo telegrafici per concedere spazio alla retorica. Una realtà “pre-trumpiana” più che “anti-trumpiana”, che – oltre alla nostalgia per un presidente antitetico a quello attuale – sembra trasudare anche la nostalgia per una politica regolata da certe dinamiche e fisiologie. Cose – queste sì – che oggi sembrano scomparse.
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