Articolo tratto dal numero di novembre 2018 di Forbes Italia.
Prendete un Paese le cui famiglie detengono una ricchezza finanziaria enorme, stimata da Bankitalia in 4.200 miliardi di euro, di cui circa un terzo è parcheggiato in depositi e liquidità: perde costantemente valore, eroso dall’inflazione. Prendete, poi, un colosso globale dell’asset management, con 50 anni di esperienza nella gestione attiva, una squadra di 390 professionisti in tutto il mondo e un patrimonio di oltre 315 miliardi di dollari. Parrebbero fatti l’uno per l’altra. E infatti Fidelity International, in Italia, è arrivata nel 2000, ben prima che altri operatori esteri iniziassero a puntare sulla Penisola per distribuire i propri fondi. In 18 anni, la società è passata da zero a 22,4 miliardi di euro in gestione, che salgono a 24 miliardi considerando anche mandati istituzionali e deleghe di gestione.
Un valore decuplicato in dieci anni, raddoppiato negli ultimi cinque, merito di un robusto giro d’affari, che oggi conta oltre 100 accordi distributivi, tra reti di consulenti, banche commerciali e private e 400 controparti, tra case terze, sim, clienti istituzionali. “Si è trattato di una crescita organica, realizzata senza acquisizioni. Ricordo che siamo un operatore indipendente, che non appartiene a banche o compagnie assicurative”, rivendica il country head per l’Italia, Cosmo Schinaia. Costretto però a fare i conti, oggi, con un’arena competitiva sempre più agguerrita. Lo sbarco di nuovi player nell’industria domestica del risparmio. E con la gestione attiva, punta di diamante dell’offerta di Fidelity International, insidiata dalla costante crescita degli strumenti passivi, che si limitano a replicare il mercato, senza pretese di ottenere un extra-rendimento. E costano molto meno. Fatto da non sottovalutare nel nuovo quadro normativo delineato da Mifid2, la direttiva europea sul mercato degli strumenti finanziari, entrata in vigore a gennaio, che impone una totale trasparenza sui costi dei prodotti d’investimento, rendendo più facile la comparazione. Occorre, quindi affilare le armi, se si vuole restare tra le prime scelte degli investitori in tema di gestione del risparmio.
Qual è la strada per continuare a crescere in Italia, in questa cornice così complicata?
L’industria deve concentrarsi sulla proposta di soluzioni d’investimento orientate a risolvere bisogni specifici: protezione del capitale, integrazione del reddito, crescita a lungo termine. Ad esempio noi abbiamo iniziato a offrire strumenti con un preciso orizzonte temporale, pensiamo ai genitori che vogliono investire una somma da destinare al proprio figlio in vista dell’università: sono studiati per massimizzare la crescita del capitale e funzionano con una logica di progressiva riduzione del rischio, a mano a mano che si avvicina la scadenza prevista.
Ma le famiglie italiane, che spesso non hanno grandi competenze finanziarie, sono in grado di capire come funzionano questi strumenti?
Le soluzioni costruite su esigenze concrete sono più facili da comprendere. In ogni caso, bisogna continuare a lavorare sull’educazione finanziaria. Abbiamo una serie di iniziative in corso, per formare i consulenti in primo luogo, ma anche i clienti finali.
Qual è l’errore più frequente che le famiglie italiane commettono nel gestire i propri risparmi?
Quello di tenere troppe risorse parcheggiate sulla liquidità. Non investire equivale a distruggere valore, a causa dell’inflazione. Negli ultimi 20 anni, l’aumento dei prezzi al consumo ha eroso il 30% dei capitali lasciati infruttiferi sul conto corrente. In dieci anni, la perdita di valore è di un quinto. Lo dice l’Istat.
Però molti risparmiatori si sentono traditi dai fondi: le performance non sono sempre state all’altezza delle aspettative…
Il problema è che troppo a lungo sono stati venduti come attivi fondi che avevano rendimenti insoddisfacenti, in linea con la gestione passiva. E con costi troppo elevati.
A proposito di costi: da un lato le nuove regole europee, dall’altro il successo degli strumenti low-cost a replica passiva impongono una riduzione delle spese. Come vi siete attrezzati?
Abbiamo introdotto un sistema di commissioni variabili su alcuni fondi: i costi salgono oppure scendono in base alla capacità del manager di consegnare un extra-rendimento rispetto al mercato. In questo modo si ottiene un migliore allineamento tra gli interessi della fabbrica prodotto, dell’intermediario e del cliente finale. Nella nostra offerta, inoltre, abbiamo anche etf e fondi passivi. È sbagliato però vedere strategie attive e passive come soluzioni in competizione tra loro. Al contrario, possono e dovrebbero convivere all’interno dei portafogli. Con un’avvertenza: d’ora in avanti, il mercato sarà più complicato, vedremo aumentare la dispersione dei rendimenti tra le società. I bravi gestori saranno in grado di fare la differenza.
Investite anche nelle aziende italiane?
Si, nella nostra offerta abbiamo anche un fondo azionario focalizzato esclusivamente sull’Italia, che investe 520 milioni di euro sulle aziende della Penisola. È un fondo che rispetta le regole previste dai Piani individuali di risparmio, quindi le risorse sono destinate per almeno un quinto del portafoglio a società a piccola e media capitalizzazione, che non sono rappresentate nell’indice delle blue chip, il Ftse Mib. Questo strumento è gestito da due manager italiani, che vivono nella Penisola – in linea con la filosofia d’investimento della casa – e organizzano qualcosa come 400 meeting l’anno per incontrare i dirigenti delle aziende in cui investono o vorrebbero investire.
Vi preoccupa l’aumento delle tensioni sullo spread, innescato dai numeri contenuti nella nota di aggiornamento al Def, che non piace né all’Europa nè ai mercati?
Il tema della sostenibilità del debito è centrale per l’Italia. Finché non saranno pubblicati i numeri definitivi della Manovra però non sarà possibile esprimere un giudizio risolutivo. Credo che alla fine la tensione rientrerà. Significa che potrebbero crearsi delle opportunità d’investimento molto attraenti, perché il rischio Italia ha penalizzato molte aziende indistintamente, anche quelle che fatturano prevalentemente oltre i confini nazionali e sono quindi poco vulnerabili all’andamento del rischio sovrano. Il mercato italiano rimane estremamente interessante. Continueremo a investire sull’Italia.
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