Innovation

Un italiano ha inventato la tecnologia che trasforma qualsiasi superficie in uno strumento musicale

Bruno Zamborlin

di Daniele Ferriero

Di norma, nell’immaginare il domani, autori, artisti, esteti e futurologi tendono a dare per scontato il nostro rapporto con la tecnologia. L’interfaccia e le forme di manualità che abbiamo visto dipinte in così tanti e diversi prodotti narratologici, si tratti di film, videogiochi, libri, fumetti, storyboard o concept art, constano spesso tutti delle stesse visioni. Contano su di un immaginario condiviso.

Per amor di semplicità: la possibilità di avere interfacce liquide e sulle superfici più improbabili. Un tamburellare di dita su tastiere virtuali, bottoni che sembrano magiche scorciatoie sopra ad ologrammi, mani che svolazzano in aria come direttori d’orchestre digitali.

Con il passare del tempo, però, questo immaginario si è trasformato pigramente in una forma di asservimento ulteriore. Quello rispetto a un’immagine del mondo che non abbiamo ancora raggiunto e che tuttavia tendiamo a dare, ahinoi, per scontata. Non è così, ovviamente. E il profluvio di miracoli rimandati a furia di Internet of Things e rete 5G tende a confermarlo.

Se già avere un touch screen funzionante, oggi, appare un mezzo miracolo, figurarsi le flessioni tecnologiche esagerate contenute tra gli schermi di Minority Report, un film che data a poco meno di vent’anni fa. Il futuro è qui, e oggi, ma fatichiamo ancora a vederlo e frequentarlo.

Tuttavia, rincuoriamoci. Bruno Zamborlin e i suoi sono qui proprio per questo. Per realizzare quella visione e concretizzare un sogno.  Mettere in essere un archetipo che ci portiamo dietro da decenni senza averlo ancora realizzato. E che, forse, potrebbe persino essere superato, a seconda di quanto vogliamo lanciarci in avanti. A furia di successi e speranza.

Con Mogees hanno prima trasfigurato qualsiasi oggetto e superficie rendendoli uno strumento musicale e ora, con Hypersufaces, trasformeranno qualsiasi superficie od oggetto in un’interfaccia praticabile.

Un domani potremmo quindi dover salutare tastiera, touch screen e pulsanti anche grazie a loro. Avendo inoltre persino la possibilità di trasformare un pavimento in un sensore di sicurezza oppure un tavolo in un’interfaccia per la domotica. Ovvero, sfruttare qualsivoglia materiale e cambiare in toto il modo in cui usiamo e approcciamo la tecnologia e le interfacce.

Il team di Hypersurfaces.

Ne parliamo direttamente con il ceo e Chief Scientist. Visto che la rivoluzione potrebbe giocarsi proprio da queste parti.

Scaviamo un attimo nella vostra tecnologia: cos’è Hypersurfaces, qual è il suo ruolo e come funziona?

Al giorno d’oggi siamo abituati a vivere in due universi paralleli: c’è quello fisico, fatto di persone ed oggetti, e quello dei dati. Questi due universi sono lontani anni luce ed hanno delle microscopiche ‘fessure’ che li connettono: touchscreen, mouse, pulsanti. Queste fessure non catturano nemmeno l’1% di quello che avviene nel mondo fisico.

Una HyperSurface è un oggetto fisico assolutamente identico a come lo conosciamo, ma che è diventato ‘data-enabled’ e capace di capire ed interpretare qualunque evento avvenga sulla sua superficie. Qualunque oggetto di qualunque materiale, forma e dimensione può diventare un’HyperSurface.

Questo è possibile grazie ad un microchip da noi brevettato, che contiene degli algoritmi di intelligenza artificiale in grado di riconoscere qualsiasi ‘pattern’ di vibrazioni che avvengono negli oggetti. Tutto questo senza nemmeno bisogno di essere connessi a Internet. Ad oggi abbiamo 4 brevetti su questa tecnologia.

Quali sono stati i tuoi studi e come sei arrivato a concepire questo progetto?

Ho studiato matematica e informatica a Bologna e mi sono poi trasferito a Parigi per lavorare all’IRCAM-Centre Pompidou, il più grande centro di tecnologia musicale in Europa. Lì ho iniziato ad appassionarmi allo studio del movimento e del gesto umano e a come applicarlo alla creazione di nuove interfacce per il controllo del suono. Ho creato vari strumenti acustico-digitali, tra cui un theremin preparato e un tool chiamato Gesture Follower, un software che consentiva di trasformare il proprio corpo in un’interfaccia MIDI per il controllo di suoni elettronici e video. Nel 2011 ho visto una borsa di dottorato a Goldsmiths e mi sono quindi trasferito a Londra. Lì ho iniziato la collaborazione con i Plaid e con Warp, da cui é nata la tecnologia Mogees ed il primo prodotto commerciale che ho lanciato su Kickstarter.

Mogees e HyperSurfaces: da cosa sono dunque legati e quali invece le differenze?

Mogees nasce dall’idea di trasformare gli oggetti fisici attorno a noi in strumenti musicali. È quello che possiamo chiamare un ‘meta-strumento’, cioè uno strumento per creare strumenti.

Lo fa attraverso un piccolo sensore sensibile alle vibrazioni che puoi applicare a qualunque oggetto attorno a te (si tratti di un tavolo, un muro, un albero) e puoi “programmare” in modo da fargli riconoscere i gesti che preferisci (toccare l’oggetto in punti diversi, usando il dito o piuttosto la nocca o una bacchetta, etc…). Ogni gesto può essere associato ad un suono, con intensità differenti e diversi parametri. Consente cioè di “programmare” gli oggetti attorno a noi per farli diventare sofisticati controller musicali. Permette di fornire un lato fisico ed improvvisativo che storicamente la musica elettronica non ha.

Con HyperSurfaces abbiamo voluto aprire questa tecnologia ai business. HyperSurfaces è un piccolo microchip/sensore che funziona senza telefono e non ha bisogno nemmeno di una connessione a internet. Questo chip può essere inserito all’interno di qualunque oggetto fisico e programmato in modo da riconoscere determinati eventi. È simile a Mogees, ma una volta programmato all’interno di un oggetto, questo è “pronto all’uso” senza nessuna ulteriore calibrazione da parte dell’utente.

Può essere insomma usato dai designer di tutto il mondo per rendere i loro prodotti ‘data-enabled’, cioè in grado di capire tutto quello che succede sulla loro superficie. Lo puoi usare per capire come i tuoi utenti usano il tuo prodotto, o per renderlo interattivo senza bisogno di aggiungere alcun pulsante materiale o touchscreen. È un po’ come se Alexa fosse dotata di “tatto”.

Qual è il vostro modello aziendale e quali elementi vi differenziano dalle aziende a voi potenzialmente vicine nel core business?

È difficile trovare soluzioni paragonabili alla nostra in questo momento, al di là di pulsanti e sensori capacitivi. Di certo c’è un fortissimo bisogno e slancio all’innovazione, in qualsiasi industria, dal retail all’automotive al design, e se resti indietro rischi di sparire nell’arco di 6 mesi, è pazzesco. Il nostro modello è quello di semplificare il processo di innovazione delle aziende in questi settori, un po’ come Amazon e Google vogliono fare con il controllo vocale.

Il passo dall’intrattenimento e l’applicazione musicale di Mogees all’applicazione industriale è un bel salto. Quali le difficoltà principali e le sfide da superare? La vocazione internazionale e la sede a Londra pensi abbiano conferito valore aggiunto al progetto?

In un certo senso ora è più semplice. Con Mogees dovevamo occuparci di tutto, dalla produzione hardware al marketing, dalla ricerca alla grafica delle app. È stato incredibile e in un certo senso credo che noi abbiamo davvero aiutato a cambiare la percezione di quello che può voler dire ‘suonare musica digitale’. Ma abbiamo capito che per scalare dovevamo spostarci sul B2B. Essere a Londra poi aiuta moltissimo, è una citta i cui aiuti per le startup innovative e il capitale a disposizione non hanno ad oggi eguali in nessun’altra parte d’Europa.

Sulla carta, da anni, tra Internet of Things e arrivo del 5G si parla della definitiva unione del digitale e del regno materiale. Quali pensi siano i passi necessari mancanti e HyperSurfaces quale ruolo può giocare in tal senso?

Quello che è chiaro a tutti è che la concorrenza non dorme. Se lavori in un determinato settore, che sia retail piuttosto che automotive, domotica, entertainment, etc, se i tuoi competitor hanno accesso ad un flusso di dati che tu non hai, oppure offrono una user experience che tu non riesci ad offrire, semplicemente sparisci. Prevedo però la necessita di regolamentare l’uso dei dati e in questo l’Europa può forse per una volta essere la prima della classe.  HyperSurfaces lavora certamente in questa direzione e può accelerare questo processo notevolmente.

Un recente articolo del Financial Times, a firma Valentina Romei, sottolinea quanto il problema dell’economia italiana sia strutturale. In particolare, esplicita quanto le tanto decantate piccole e medie imprese abbiano spesso, in realtà, livelli di produttività minori rispetto alle equivalenti di altri paesi. Oltre ad aver investito meno sulla ricerca e sviluppo, sulle piattaforme digitali e la vendita online. Come vedi dunque, dalla tua prospettiva, l’orizzonte dell’industria e dell’economia italiane?

Ho lasciato l’Italia ormai 13 anni fa per un motivo ben preciso: avevo capito che il mondo della ricerca pubblica in Italia veniva visto come una spesa e non come un investimento. Senza fondi nella ricerca un Paese non arriverà mai primo, ma potrà sempre e solo seguire gli altri (specialmente nell’ambito delle nuove tecnologie). Ad oggi questo problema irrisolto va ad aggiungersi ad altri problemi ben noti: alta tassazione, mancanza completa di fondi a livello istituzionale (Venture Capital) e mancanza di incentivi per le grosse imprese a fare M&A creando quindi le cosiddette exit (senza di quelle diventa inutile sprecare soldi pubblici). Insomma, manca l’ecosistema e i giovani imprenditori non possono fare altro che spostarsi altrove. Spero almeno che le industrie nelle quali l’Italia è più forte (moda, design, tessile, food) riescano a cavalcare l’onda digitale senza venire soffocate da questi problemi. Ma il pericolo c’è.

Ti chiediamo due diversi gradi di preveggenza e visioni: qual è il tuo sogno più realistico e a breve termine, rispetto all’applicazione di HyperSurfaces? E quale, invece, una visione sfrenata?

Prevedo due ‘ondate’ di applicazioni per HyperSurfaces. Oggi, le compagnie lo useranno per raccogliere dati e per rimuovere vecchi pulsanti e manopole dai loro prodotti. Un domani, spero che aiuti a sviluppare un nuovo modo di comunicare con la tecnologia, più naturale e meno alienante di quello a cui siamo sottoposti quest’oggi.

L’opportunità di dare una “voce” agli oggetti inanimati e riscoprire la gestualità pura e semplice pensi possa giovare all’ambito artistico e performativo? C’è qualcheduno che si muove in simili territori che apprezzi? In ultimo, dobbiamo proprio proprio dimenticarci di Mogees e delle sue musiche?

Nel campo artistico il mondo dei found objects è stato esplorato in lungo e in largo durante tutto il ‘900, da DuChamp alla musica concreta e field recordings. Gli esempi sono davvero troppi per citarli qui. Più recentemente, mi ero innomorato di LandFill Harmonic, un progetto Kickstarter per trasformare i rifiuti in strumenti musicali. Per quanto riguarda Mogees, invece, è ancora disponibile anche se non lo stiamo più mantenendo. Inoltre, io lo uso tuttora per i miei concerti (per esempio abbiamo suonato con Plaid due mesi fa proprio a Matera).  Mai dire mai, insomma, vedremo cosa il futuro ci riserverà.

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