i grattacieli di Shanghai
Trending

Dazi, Cina già pronta per superare gli Stati Uniti?

i grattacieli di Shanghai
I grattacieli di Shanghai, con in primo piano la Pearl Tower (Shutterstock)

Meno di dieci anni fa, i media occidentali avevano gioco facile a prendersi gioco di Baidu, il principale motore di ricerca cinese. Pieno zeppo di pubblicità fraudolente, tenuto sotto stretto controllo delle autorità statali, prone alla censura, sembrava quasi un retaggio di un’altra e più grigia epoca di repressione. Ma adesso, soprattutto i concorrenti americani, non ridono più. Non sono solo i progressi del search engine nel settore dell’Intelligenza artificiale a lasciare a bocca aperta, ma è tutto l’avanzamento tecnologico cinese ad aver raggiunto, nell’ultimo decennio, e in particolare nell’ultimo lustro, dimensioni colossali. Tanto da spaventare l’amministrazione Trump, la Silicon Valley e tutta la comunità politica occidentale.

Intervistato da Axios, Graham Allison, uno specialista in sicurezza nazionale di Harvard, ha spiegato che questa storia parla della “grande rivalità tra una Cina in ascesa portentosa e gli Stati Uniti, che erano abituati a comandare”, e della fine di un “un secolo americano, in cui (gli Stati Uniti) erano in cima a qualunque scala gerarchica”.  L’idea che possa essere una multinazionale della Cina – più d’ogni altro paese – a surclassare gli Stati Uniti in un qualsiasi settore delle tecnologie futuribili è qualcosa che tocca non solo l’economia ma anche l’orgoglio nazionale degli americani, la loro supremazia culturale, la loro identità.

Si chiama “Made in China 2025” il progetto faraonico di crescita tecnologica della Repubblica popolare, disvelato tre anni fa e che punta alla supremazia digitale in settori cruciali come il 5G, le auto elettriche e self-driving, la robotica, blockchain e l’AI, inserendosi in una guerra dei dazi iniziata con l’elezione di Trump, ma che era nell’aria da molto più tempo, almeno da quando la Cina ha fatto il suo ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, diciassette anni fa.

Il nemico numero uno in questo momento sembra essere Huawei. Il produttore di smartphone cinese, che opera in un paese nel quale il controllo statale dell’industria è molto forte, attualmente possiede una quota di nuovi brevetti depositati per quanto riguarda i nuovi standard 5G molto vicina a quella della statunitense Qualcomm. È un settore che potrebbe risultare fondamentale per sviluppare il cosiddetto “Internet delle cose”, nonché nuovi processi di automazione del lavoro, dei servizi e della comunicazione in generale.

Secondo la copertina dell’ultima edizione domenicale del New York Times, che racconta la reale natura della corsa alla supremazia nel 5G, non si tratta di esagerazioni: “Il potenziale del 5G ha creato un calcolo a somma zero nella Casa Bianca di Trump”, scrivono. “La convinzione che ci debba essere un solo vincitore in questo braccio di ferro, e che il perdente debba essere distrutto”. La sfida ossessiona a tal punto gli americani, che in un report di 215 pagine reso pubblico il marzo dell’anno scorso dal Rappresentante per il Commercio statunitense, Robert Lighthizer – una dei principali “falchi” di questa guerra fredda commerciale – la parola “China 2025” è stata citata ben 111 volte.

Ciò che è in ballo non è solo la “faccia” di un’amministrazione come quella di Trump – focalizzata sul ritorno in grande dell’America umiliata, soprattutto nelle sue fabbriche del Midwest, da trattati commerciali percepiti come ingiusti – ma il tramonto definitivo di un dominio storico. Per almeno un secolo, infatti il primato tecnologico degli Stati Uniti è stato pressoché indiscusso: dalla produzione bellica superiore durante la Prima guerra mondiale, alla decodificazione di messaggi criptati durante la Seconda guerra mondiale, ai primi processori degli anni Quaranta che avrebbero rappresentato le basi per lo sviluppo dell’industria digitale. Certo l’Unione Sovietica aveva fatto sudare freddo prima Eisenhower e poi Kennedy, mandando nello spazio il primo satellite e poi il primo essere umano, ma la Space Age si era conclusa con la definitiva vittoria di Washington; nei Settanta il paese aveva perso sì lo strapotere nella tecnologia manifatturiera, facendo i conti con l’avanzamento della Germania, del Giappone e della Cina, ma nel progettare e assemblare alta tecnologia nessuno, fino ad almeno un decennio fa, si era potuto avvicinare anche solo lontanamente all’industria americana.

La Cina è un avversario di ben altra stazza. Se gli Stati Uniti posseggono un vantaggio in termini di capitali privati ed esperienza ancora considerevole, soprattutto nel settore agricolo e militare, l’iniziativa cinese chiamata “One Belt, One Road” – la “nuova Via della seta”, comprensiva di mega-progetti infrastrutturali che Washington potrebbe solo sognare – rischia di eroderlo anche lì.

Il punto è che la Cina ha investito risorse davvero colossali per la ricerca e lo sviluppo: 409 miliardi di dollari solo nel 2015 (rappresentano il 21 per cento del totale globale) a detta della National Science Foundation. Una crescita media annuale del 20 per cento tra il 2000 e il 2010, e del 14 per cento tra il 2010 e il 2015, mentre negli Stati Uniti la spesa per la ricerca aumentava di “appena” il 4 per cento l’anno (che già è almeno un punto in più di tutti e 28 i paesi dell’Ue, per capirci).

Sulla rivista Limes, lo studioso di geopolitica Giorgio Cuscito ha scritto tempo fa che: “La Repubblica Popolare ha ancora qualche lacuna sul piano quantitativo, ma sta rapidamente colmando il divario con gli Usa grazie al forte sostegno governativo alle aziende tecnologiche nazionali, alla grande quantità di metadati a disposizione e al fenomeno dell’imprenditoria cinese”, mobilitando investimenti per 150 miliardi di dollari. Per un paese come la Cina, che ha un reddito procapite che è un sesto di quello americano, l’investimento in tecnologia assume la forma di un vero e proprio investimento patriottico.

Per il momento, l’unico progetto che negli Stati Uniti sembra riecheggiare lontanamente le ambizioni della Cina è il Green New Deal, che punta a rendere il paese dipendente soltanto da energie rinnovabili entro 10 anni, e tra le altre cose accenna anche a treni superveloci con cui connettere l’Atlantico con il Pacifico: dovesse diventare vincolante per davvero, e non restare soltanto un insieme di intenti della parte più progressista del Partito democratico, il Green New Deal obbligherebbe la politica americana a confrontarsi con ipotesi davvero fantascientifiche, come quella di finanziare col deficit una ristrutturazione radicale della propria economia, con esiti ancora tutti da immaginare.

L’ipotesi peggiore, per gli americani, è invece quella di fare un salto carpiato all’indietro di quasi quarant’anni, quando il “Made in Japan” convinceva milioni di consumatori a comprare auto Nissan o Toyota, portando alla crisi definitiva di centri industriali come Detroit, che da allora non si sono più ripresi. Viste le dimensioni della catena del valore cinese, il “Made in China”  ha rischiato, e rischia tuttora, di diventare un incubo molto più grande.

Il paradosso, secondo la giornalista Ina Fried, è che Stati Uniti e Cina avrebbero bisogno l’uno dell’altro: la prima superpotenza importa dalla seconda tutta la manifattura per l’elettronica, tra cui smartphone e computer; viceversa, la Cina importa dagli Stati Uniti i microchip, anche se si sta organizzando per fare a meno anche di questo.

Bisognerà vedere l’efficacia della politica di Trump che vorrebbe spingere la Cina a rinunciare al furto di proprietà intellettuale americana, o se andrà in porto il divieto per le società statunitensi di adottare dispositivi prodotti da Huawei e Zte, accusate tra l’altro di favorire lo spionaggio industriale.

Probabilmente, ad un certo punto, si smetterà di parlare del tutto delle scorrettezze vere o presunte dei concorrenti cinesi, e resterà soltanto una questione: il problema geopolitico, per gli americani, rappresentato dal vantaggio competitivo di Pechino, che dalla tecnologia potrebbe trasferirsi molto rapidamente alle capacità militari. In un mondo dove Washington oscilla tra rinunce (Siria), diplomazia spinta (Corea del Nord) e nuovo interventismo (Venezuela), con la Cina pronta a giocare un ruolo cruciale.

Di sicuro, il rallentamento vistoso del Pil cinese di questi ultimi mesi potrebbe rappresentare forse il freno più decisivo per ulteriori investimenti di Stato in tecnologia. Nonostante l’altalena della borsa americana questo inverno, quella di Pechino ha deluso ancora di più durante il 2018, e tuttora otto delle società a più alta capitalizzazione del mondo su 10 sono statunitensi, contro due cinesi. Con tutta probabilità, la “nuova Guerra Fredda” continuerà a lungo, ma sorpassi clamorosi non sono dietro l’angolo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .

Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .