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L’Italia ha tre problemi, più un quarto sullo sfondo. Parla Alberto Alesina

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L’economista Alberto Alesina (Imagoeconomica)

“Austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi si manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata”. Nel 1977, l’allora segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer pronunciava al “convegno degli intellettuali” quello che sarebbe passato alla storia come il discorso sull’austerità. Concetti che con tutta probabilità sarebbero pienamente attuali ancora oggi.

Con una differenza: in 40 anni il termine austerità, lungi dal divenire di moda, è anzi uscito dal vocabolario della politica per entrare di diritto nell’elenco dei termini avversati in un’Italia in perenna campagna elettorale e dai frequenti mal di pancia verso prescrizioni che vengono vissute come diktat da parte dell’Unione europea.

La copertina del libro di Alesina, Favero e Giavazzi
Il nuovo libro di Alesina, Favero e Giavazzi

A riportare d’attualità l’austerity è però l’ultimo lavoro di un terzetto di economisti italiani noti in tutto il mondo per la loro ricerca accademica: Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi, autori di “Austerità. Quando funziona e quando no”, giunto da poco in libreria per Rizzoli.

Il libro smaschera falsi miti e comode narrazioni, dimostrando attraverso la realtà dei numeri e diversi casi di successo, come l’austerità possa essere uno strumento prezioso, se ben dosata.

Forbes.it ha raggiunto Alberto Alesina, considerato uno dei maggiori esperti di politica economica al mondo, presso la sua cattedra all’Università di Harvard, negli Stati Uniti, a pochi giorni da un viaggio che lo vedrà tornare in Italia, dove sarà ospite lunedì 18 febbraio di un Club Meeting promosso dall’Executive Club di Business International, riservato a presidenti, amministratori delegati, direttori generali e board member di aziende italiane e multinazionali.

Durante l’incontro si parlerà di temi centrali dell’economia italiana ed internazionale, sullo sfondo delle sfide poste dallo spettro di una nuova recessione globale e dalle evidenti disfunzioni della globalizzazione. Alesina ha anticipato in questa intervista alcuni dei temi dell’incontro.

 

E’ da poco nelle librerie il suo ultimo lavoro: “Austerità. Quando funziona e quando no”, scritto con Carlo Favero e Francesco Giavazzi. Partiamo da qui e da un contesto nazionale di diffusa avversione nei confronti del termine austerità. Qual è il segreto per il quale l’austerità può diventare uno strumento prezioso nella gestione della politica economica di un Paese? E cosa è andato storto in Italia?

L’austerità non sarebbe mai necessaria se i governi seguissero politiche fiscali adeguate, cioè con deficit durante le recessioni compensati da surplus nei periodi di alta crescita. L’austerità diventa necessaria quando i governi accumulano debito perché non compensano i deficit in recessione con i surplus durante i boom. Inoltre spesso i debiti pubblici esplodono per via di sistemi pensionistici sbilanciati o per altri entitlements come la spesa sanitaria in Usa per Medicaid. Quindi senza errori fiscali non ci sarebbe (quasi) mai bisogno di austerità. Qualche volta questi errori sono aggravati da shock esogeni come la crisi finanziaria del 2008. Ma se, per esempio, l’Italia non fosse arrivata alla crisi con un debito così alto accumulato per nessun valido motivo, durante la crisi la politica fiscale sarebbe potuta essere più espansiva e non ci sarebbe stato bisogno di austerità con uno spread alle stelle per il timore di un ripudio. Quindi l’austerità non è “uno strumento prezioso” ma una correzione di errori del passato. Quello che è andato storto in Italia non è tanto l’austerità di Monti ma 30 anni di bassa crescita, produttività stagnante e alto debito.

Nella situazione attuale l’Italia si trova stretta tra la necessità di essere fiscalmente virtuosa all’interno di un sistema con una divisa unica e in cui non vi è la volontà di socializzare i rischi tra gli Stati attraverso trasferimenti in presenza di quelli che vengono definiti shock asimmetrici. Nell’ottica di fare un passo indietro al fine di farne due in avanti in un successivo futuro, riterrebbe praticabile l’idea di adottare cambi flessibili o semiflessibili sulla base di una formula che tenga conto del differenziale dei tassi d’interesse tra i Paesi e del rapporto debito/Pil in modo che anche i Paesi meno virtuosi siano responsabilizzati?

In generale non credo a formule monetarie magiche che risolvano problemi di crescita. La crescita è determinata nel medio periodo da produttività, sviluppo tecnologico, mercati concorrenziali, regolamentazioni adeguate e non soffocanti, libertà dalle lobby, uno stato produttivo e non rapace, cioè tutti fattori reali. Inoltre l’unico fattore che tira in Italia sono le esportazioni anche con la moneta unica. Quello che manca sono investimenti e domanda interna.

Per contenere il rapporto debito/Pil dovremmo avere una crescita nominale maggiore del costo medio del debito pubblico, oggi pari in Italia all’incirca al 3,3%. Qual è la via di uscita per un Paese come il nostro che ha crescita demografica nulla e una crescita della produttività che è stagnante da 20 anni? 

Con tassi d’interesse così bassi, se l’inflazione risalisse verso il 2 o 3 per cento anche con una crescita reale modesta non sarebbe difficile soddisfare quest’equazione. I problemi sono tre. Primo, il nostro spread alza i nostri tassi: la continua incertezza politica, l’incompetenza di alcuni dei nostri ministri, le loro dichiarazioni assurde, le uscite anti euro di Bagnai e Borghi, lo tengono alto. A ciò si aggiunge una riforma delle pensioni che aggrava la dinamica del debito e un reddito di cittadinanza che peggiora invece di migliorare il nostro già imperfetto sistema di welfare.  Secondo, i tassi d’interesse mondiali prima o poi risaliranno e se a ciò aggiungiamo lo spread il debito potrebbe costare parecchio diventando un fardello ancora maggiore per il paese. Terzo, la crescita reale non arriva. La produttività non sale, l’imposizione fiscale non scende, l’unico settore che tira sono le esportazioni mentre i nostri sovranisti vorrebbero isolarci. Infine il ciclo economico attuale se aggravato da una recessione mondiale potrebbe scatenare un’altra crisi da debito. Speriamo di no.

 

Alberto Alesina – biografia

Economista. È Il Nathaniel Ropes Professor of Political Economy nel dipartimento di Economia ad Harvard e visiting professor all’ IGIER Bocconi. Laurea alla Bocconi e dottorato ad Harvard, nel 1986. Fellow della Econometric Society e dell’ American Academy of Arts and Sciences. Per otto anni co-editor del Quarterly Journal of Economics, ed è direttore del programma di political economy del NBER dal 2006. Editorialista del Corriere della Sera. Articoli pubblicati anche in testate internazionali tra cui Il Financial Times, il Wall Street Journal, Le Monde e molte altre.
È considerato uno dei maggiori esperti al mondo di politica economica; nel 1990 l’Economist l’aveva descritto come uno degli otto migliori economisti, sotto i quaranta anni, probabile destinatario di un futuro Premio Nobel.

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