impianto di raffinazione
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La Guyana potrebbe presto diventare il nuovo Qatar

impianto di raffinazione
(Shutterstock)

Fino al 2015, il paese era conosciuto quasi unicamente per uno spaventoso conteggio luttuoso. Fu in questa ex colonia britannica che il 18 novembre 1978 si verificò il più grande suicidio di massa della storia, con oltre 900 membri di un culto religioso americano che si fecero avvelenare col cianuro. Dal “massacro di Jonestown” – così fu chiamato – in Guyana, sarebbero stati tratti film, serie tv e innumerevoli documentari.

Ma quattro anni fa, arrivò una notizia che avrebbe cambiato questo spicchio di circa 200mila chilometri quadrati in America meridionale per sempre: ExxonMobil annunciò infatti la scoperta di uno dei giacimenti petroliferi offshore più grandi del decennio. Per capirne le proporzioni: un giacimento viene definito “supergigante” se raggiunge il miliardo di barili di petrolio potenziali; quello della Guyana – battezzato Stabroek Block – vale oggi, secondo le ultime stime, oltre cinque miliardi di barili di petrolio.

Lo sconvolgente ritrovamento ha però portato con sé anche una notevole dose di instabilità, in ogni campo: innanzitutto, riaccendendo un’antica disputa col vicino venezuelano, che in preda ad una tragica crisi economica e politica ha deciso di reclamare una porzione delle acque territoriali guyanesi: storia che si trascina dai tempi coloniali, bisogna dire, risolta parzialmente in tribunale nel 1949, ma poi si avanzò il sospetto che i giudici fossero stati corrotti, e la questione divenne un classico nodo della diplomazia locale, con la Guyana che l’anno scorso ha deciso di rivolgersi alla Corte internazionale di giustizia dell’Onu, e addirittura chiedere la protezione militare del confinante Brasile.

Tutto questo mentre Stati Uniti, Cina e Russia stanno facendo capolino sempre più sfacciatamente sulla regione: vuoi per imporre la loro influenza politica nel bel mezzo di una quasi-guerra civile (accellerata dall’autoproclamazione di Juan Guaido, leader dell’opposizione venezuelana, a presidente ad interim), nel caso di Washington; vuoi per accaparrarsi una fetta del tesoro petrolifero scoperto sotto i piedi di una mini-nazione che non raggiunge il milione di abitanti, nel caso di Pechino e Mosca.

In realtà, i guai sono iniziati anche prima che Exxon rivelasse quanto petrolio ci fosse di fronte alle coste dell’America del Sud. Nel 2013, la marina venezuelana sequestrò una nave che stava conducendo esplorazioni sul fondale marino alla ricerca di giacimenti. Nonostante l’imbarcazione si trovasse in acque riconosciute da tutto il mondo come appartenenti alla Guyana, Caracas parlò di violazione della sua sovranità territoriale. La verità è che per molti anni il Venezuela aveva tentato di dissuadere le multinazionali petrolifere dal sondare le potenzialità della Guyana, sperando di impedire così la nascita di un rivale nell’esportazione di petrolio: come minaccia, Caracas metteva sul tavolo il potenziale ritiro delle concessioni petrolifere rilasciate nel proprio territorio agli americani. La situazione precipitò quando il presidente Hugo Chavez decise, per finanziare il welfare statale, di procedere comunque con la nazionalizzazione di diversi giacimenti in Venezuela, inclusi alcuni di proprietà di Exxon.

La società decise allora di vendicarsi convincendo il governo guyanese a lasciar procedere le esplorazioni. Nel 2016, il giacimento di Stabroek venne annunciato al mondo e le scoperte di nuove falde nell’area iniziarono a susseguirsi, e la risposta del Venezuela non si fece attendere: il nuovo presidente Nicolas Maduro decise di cacciare la Guyana da Petrocaribe, il programma che consiste nella spedizione di greggio ai paesi sudamericani alleati di Caracas dietro pagamenti parziali, o in cambio di cibo e medicine. Come se non bastasse, ad avanzare diritti di proprietà sulle acque della Guyana si aggiunsero anche gli stati di Trinidad e Tobago e Barbados. Non certo delle superpotenze, ma sufficienti ad aumentare il caos nella zona – al punto che l’ambasciatore della Guyana negli Stati Uniti ha definito la situazione come un “romanzo di Robert Ludlum”.

La Cina, dal canto suo, ha recentemente prestato alla Guyana circa 115 milioni di dollari per ampliare il principale aeroporto del paese, e consentire l’atterraggio dei 747.  Ancora prima, la Guyana era stata inclusa da Pechino nell’ambiziosa iniziativa Belt and Road, con cui il paese asiatico pensa di investire in mega-progetti infrastrutturali (“la nuova Via della Seta”) in diversi paesi in via di sviluppo. Le mire della Russia assumono invece la forma del gigante dell’alluminio Rusal, di proprietà di Oleg Deripaska, oligarca alleato di Vladimir Putin, che da oltre un decennio controlla diverse miniere di bauxite in Guyana. L’incubo della diplomazia americana è naturalmente quello di vedere navi da guerra russe scorazzare per i Caraibi, una zona geopoliticamente sotto stretto controllo americano da decenni.

Il petrolio della Guyana dovrebbe iniziare a sgorgare, ufficialmente, nel 2020. La Exxon parla di cominciare con 120mila barili di greggio al giorno per il prossimo anno, fino a toccare i 750mila barili nel 2025. Secondo gli analisti economici lo scenario che va assolutamente evitato è quello del “paradosso dell’abbondanza”, o anche “maledizione delle risorse”, vale a dire quando i paesi ricchi di risorse naturali, in particolare non rinnovabili come minerali e combustibili, si ritrovano ad avere una crescita economia peggiore rispetto a paesi meno dotati. Questo a causa della minore competitività di altri settori economici, della corruzione, dell’influenza dei vicini più potenti e dunque dell’instabilità politica: mali che in paesi piccoli e fragili rischiano di diventare endemici. È, in un certo senso, un rischio calcolato: Exxon, che ha visto la sua produzione globale di greggio calare in otto degli ultimi nove trimestri, punta molto sulla Guyana, e calcola che il nuovo giacimento valga da solo un aumento dell’8 per cento della produzione. La Guyana spera invece di rivoluzionare radicalmente la sua economia, anche a costo di fare un salto nell’anarchia.

Il risultato è che l’accordo con ExxonMobil è uno dei più squilibrati che si siano mai visti in questo settore. La società petrolifera ha ottenuto infatti una suddivisione 50-50 della rendita petrolifera, un regime che non si vedeva dagli anni d’oro delle multinazionali americane, tra la fine della Seconda guerra mondiale e i primi anni Cinquanta, e che potrebbe gettare le basi per un notevole malcontento della popolazione locale, in futuro.

Ma il punto è sopratutto è che la Guyana sembra totalmente impreparata per l’enorme flusso di ricchezza che potrebbe svilupparsi da Staboeck Block. È un paese politicamente confusionario senza un piano per ridistribuire tutti questi soldi tra una popolazione di appena 780mila abitanti; con due vicini, il Venezuela e il Brasile, rispettivamente 40 e 250 volte più popolosi, in profondo e imprevedibile mutamento.

“Non ci sarà maniera di gestire quell’esplosione di denaro nel modo giusto”, spiega ad Axios Amy Jaffe, direttrice della sicurezza energetica al Council on Foreign Relations. “Si sta prendendo una nazione afflitta dalla povertà e la si sta trasformando nel Qatar nel giro di tre anni”.

 

 

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