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Ray Dalio, lo speculatore che ora vuole riformare il capitalismo

Dalio parla sul palco del Web Summit
Ray Dalio di Bridgewater Associates sul palco del Web Summit 2018 di Lisbona. (Eoin Noonan /Web Summit via Getty Images)

Il numero uno di Bridgewater, il più grande hedge fund del mondo, tre anni fa aveva fatto una previsione: dopo una fase uno e una fase due di quantitative easing, la Bce sarebbe passata a una fase 3, in cui non si sarebbero aumentati i tassi di interesse, ma in cui si sarebbe lanciato il “denaro dall’elicottero” (Helicopter money), bypassando le banche e finanziando così la domanda interna. Creare denaro dal niente, insomma, per trasferirlo direttamente ai consumatori e aumentarne il potere di spesa.

Non se ne sarebbe fatto nulla, ma Dalio ha continuato ad appassionarsi alle disfunzioni del capitalismo contemporaneo – che pure gli ha regalato tante soddisfazioni – per cercare una formula che potesse placare lo scontento. Senza, sia chiaro, stravolgere la struttura economica del Paese che lo ha reso uno dei 100 uomini più ricchi del mondo.

Dalio non ha esattamente il profilo del riformatore radicale: pratica meditazione trascendentale, siede su una fortuna stimata in 18,6 miliardi di dollari, la moglie è discendente della dinastia dei Vanderbilt, e nel 2017 ha scommesso al ribasso contro l’Italia, speculando su alcune blue chip (Generali, Enel, Eni) e su varie banche (tra cui Unicredit e Intesa San Paolo). Nel 2017, con l’aiuto del team di ricerca di Bridgewater, ha però anche pubblicato un paper in cui analizzava quella che già allora era la forza ideologica trainante dei Paesi occidentali. Il titolo era: Populismo, il fenomeno, e Dalio lo definiva come “una ribellione dell’uomo comune contro le élite, e in qualche modo contro il sistema”. Dalio, inquieto per questa nuova fase di turbamento politico, voleva capirci qualcosa.

Nel testo, lungo ben 61 pagine, si mettevano a confronto le percentuali di voto ottenute dai candidati populisti nelle nazioni sviluppate del mondo negli ultimi due secoli, da Andrew Jackson a Trump. Un grafico allegato era eloquente: il populismo di fine anni Duemiladieci aveva raggiunto un successo elettorale che non si vedeva dagli anni Trenta del Novecento: c’erano l’imprenditore diventato inquilino della Casa Bianca, ma anche la Brexit e l’emersione dei nazional-populisti in Europa. Il report non offriva risposte per controbilanciare questa ondata, ma tracciava degli elementi che ricorrevano nelle tendenze di voto: ad esempio le crescenti disuguaglianze economiche nell’uscita dalla crisi finanziaria, fragilità economica oppure la crescente polarizzazione politica. Un testo sorprendentemente profondo, quasi empatico, per essere stato commissionato da uno speculatore professionale.

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Oggi Dalio, dopo due anni di presidenza Trump, di fronte alle turbe sociali e politiche del suo Paese vorrebbe offrire anche delle risposte. “Il sogno americano è perduto, ma non ne vogliamo parlare”, è la sintesi del suo pensiero. Dopo aver donato 100 milioni di dollari alle scuole pubbliche del Connecticut e pubblicato un corposo essay sul suo sito Web, dal titolo Perché e come il capitalismo deve essere riformato, Dalio è partito per un tour delle televisioni e dei giornali per incoraggiare quella che considera una battaglia bipartisan per salvare la “mano invisibile” del mercato da sé stessa. Ad un certo punto, Dalio ha anche invitato un giornalista di Cbs sul suo yacht ancorato alle Bahamas per illustrare la sua visione progressista del mondo. In questo momento stanno circolando parecchio in Rete alcuni estratti del suo manifesto d’intenti.

“Vi mostrerò perché il capitalismo non sta funzionando per la maggioranza degli americani”, esordisce lui. Cos’è che non funziona? “Questo sistema – spiega – non rappresenta più una opportunità di redistribuzione della ricchezza”. La sua filosofia è piuttosto basilare: “I capitalisti non sanno come dividere la torta economica e i socialisti non sanno come farla crescere… tutte le buone cose portate all’estremo possono essere autodistruttive”.

Eppure la parte del saggio in cui analizza le origini del malcontento è onesta e quasi incontestabile: specialmente laddove illustra i guadagni stratosferici del 10 per cento più ricco della popolazione rispetto a quello delle classi medie (stagnanti o impoverite), o la paralisi dell’ascensore sociale nazionale – alla faccia dell’American Dream – o le sperequazioni sociali tra poveri e ricchi all’interno dei singoli Stati e tra etnie. E poi ci sono il declino delle politiche pro-famiglia, la carenza di fondi dell’istruzione pubblica e, toccando altri campi, l’immensità della popolazione carceraria (con oltre 2,8 di bambini che hanno un genitore in prigione) oppure il divide sempre più tragico tra quelli che abbandonano gli studi e quelli che possono permettersi anni di indebitamento universitario e laurea con master.

Il divario tra “chi ha” e “chi non ha”, spiega Dalio, indebolisce l’economia americana perché la propensione marginale al consumo degli ultraricchi è di molto inferiore a quella di chi non ha soldi, dunque tagli vistosi delle tasse in questo momento non servono a rilanciare la domanda, e lo “sviluppo subottimale dei talenti” porta una larga fetta di popolazione a intraprendere attività sterili e dannose. Come se non bastasse, questo gap di opportunità danneggia il tessuto sociale del paese, acutizza le differenze politiche e minaccia lo stesso capitalismo. Il conflitto tra populisti di destra e populisti di sinistra”, crescente nel mondo, va evitato ad ogni costo se non vogliamo finire come ai tempi di Hitler e Mussolini. Guardiamo la storia: se hai due gruppi di persone con condizioni economiche molto diverse, e hai una fase di crisi economica… ottieni il conflitto. Guardiamo agli anni Trenta, quando c’erano quattro paesi che erano democrazie e che scelsero di non esserlo più per portare ordine al conflitto”.

Dalio – che dice di essere diventato tecnicamente un capitalista a 12 anni, dopo aver comprato le sue prime azioni con i soldi risparmiati lavorando come caddy – spiega che il bivio è tra il ricercare soluzioni condivise che salvino le istituzioni americane dal baratro e dal caos, e uno sprofondamento nell’autoritarismo populista. La questione della diseguaglianza economica dovrà, in ogni caso, essere affrontata con decisione. Nonostante la sua sete di pubblicità sembri quasi patologica, Dalio dice di detestare le interviste troppo lunghe. A lui interessa spiegare le soluzioni proposte nel suo essay, tra cui l’idea che dovrebbe essere dichiarata una “emergenza nazionale” per affrontare la disuguaglianza economica negli Stati Uniti. “Sì, questo è quello che farei se fossi presidente”.

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Il fardello di colpa di cui Dalio si sente portatore rispecchia, in un certo qual modo, alcune uscite pubbliche di Warren Buffett, che lamenta il fatto di pagare decisamente poche tasse (a causa del fatto che buona parte della sua ricchezza risiede in azioni). Tant’è che, quando il giornalista di Cbs gli chiede se le imposte dovrebbero essere alzate sugli ultra-ricchi come lui (un dibattito rilanciato dalla corrente socialista del Partito democratico in questi giorni) Dalio gli risponde: “Naturalmente”. Ma il punto centrale – precisa – è che il gettito fiscale ottenuto dai governi dovrebbe essere usato “in modo redditizio”. Il vistoso taglio delle tasse voluto da Trump, ufficialmente per stimolare la crescita e la produttività di “quelli come lui”, è fine a se stesso e “non ha alcun senso”. Ma – tanto per essere chiari – in risposta a tutti gli under-30 convinti che sia il socialismo la risposta ai problemi dell’America, Dalio dice di essere convinto che nemmeno questo lo sia.

“Il capitalismo ha bisogno di essere riformato, non abbandonato… Così com’è adesso non è sostenibile”. Quali sono le probabilità che le sue agognate riforme saranno prese in considerazione? Secondo Dalio, c’è un 60 per cento circa di possibilità che l’ineguaglianza economica verrà affrontata “nel modo sbagliato” – ad esempio, con una di quelle rivoluzioni violente di cui lui parla nel saggio, o con l’elezione di un leader dispotico che “ripristini l’ordine” alla maniera mussoliniana. Se non manca chi lo sta facendo passare come un fan dell’intervento statale e del debito pubblico, lui si disegna molto più centrista: non vanno bene né i “falchi del deficit” – tipicamente i conservatori né i liberali che “tendono a prendere in prestito troppo denaro e non sanno come utilizzarlo con intelligenza”.

La sua parola d’ordine sono gli investimenti cosiddetti double bottom down, ovvero gli investimenti che producano sia miglioramenti sociali che ritorni economici sul medio o lungo periodo. Tra i punti nodali del suo programma immaginario ci sono: a) una leadership politica molto forte; b) uno sforzo congiunto da parte di tutti i partiti per ottenere i risultati migliori, mettendo da parte la faziosità; c) un aumento degli investimenti all’istruzione del 10 per cento per studente delle scuole dell’obbligo; 4) metodi di misurazione efficienti dei risultati e dei progressi compiuti dagli individui destinatari degli investimenti 4) una rete di microfinanziamenti sul modello indiano 5) un vasto piano di investimenti infrastrutturali.

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Bridgewater, fondata da Dalio nel 1975, è forse un esempio lampante del caos razionalizzato dal dominio della finanza sull’economia: immaginata e descritta da molti come un’armata di analisti,  la maggior parte delle decisioni di investimento è fatta da potentissimi algoritmi. E se il capitalismo americano è smarrito in questo caos che gli sta facendo perdere legittimità tra gli elettori, ha però funzionato benissimo per Dalio: Bridgewater ha garantito profitti per i suoi clienti in 25 degli ultimi 28 anni, e nel 2018, mentre l’indice S&P 500 chiudeva con un calo del 4,5 per cento, il fondo registrava una crescita a doppia cifra.

“I decisori politici prestano troppa attenzione al tetto di spesa quando si parla di ritorno sugli investimenti”. Dalio non fa riferimento specifico alla Modern Monetary Theory, una versione aggiornata ed estremizzata del keynesianismo che sta prendendo piede nel mainstream, soprattutto per i suoi sostenitori all’interno del Partito democratico americano e in alcuni circoli culturali vicini ai populisti, ma il ritornello è quello: il governo deve investire per far andare avanti l’economia. L’importante è che lo faccia senza buttare via i suoi soldi. Magari, affidandosi proprio a Dalio e ai suoi algoritmi.

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